Viviamo un tempo in cui non si parla volentieri degli argomenti che sarebbero i più importanti e decisivi per gli uomini e il loro finale destino. Proprio quelli che riguardano il senso della vita. E la morte.

Della vita non si parla perché la si dà per scontata, della morte si tace per educazione, per rispetto, per paura infine. E questo nonostante le guerre, la fame, l’emarginazione di intere popolazioni. Nonostante i cataclismi che ci atterriscono di tanto in tanto, i mutamenti climatici, le intossicazioni dei cibi, dell’aria e dell’acqua, le malattie nuove e inguaribili che ci sorprendono e ci minacciano ogni giorno. E’ una strana incoerenza del nostro tempo, perché il tema della vita umana e, conseguentemente, della morte, è stato motivo di riflessione letteraria e artistica, oltre che religiosa, in tutte le epoche.



Una delle pagine più belle della poesia italiana è costituita senza dubbio da I sepolcri di Ugo Foscolo. Pagina famosa, che si è sempre letta come amara e rassegnata constatazione dell’inutilità del ricordo. E del “nonsenso” della sepoltura dettata dall’affetto o dall’ammirazione per i trapassati.



Senza negare l’evidenza di questa lettura, esplicita nel testo, a me sembra che, paradossalmente, quei versi si possano legittimamente leggere come “il più bell’atto di fede, uscito dalla penna e dal cuore di un miscredente”. Certo, il poeta di Zacinto non pensa alla vita oltre la morte come un’autentica vita, per quanto nuova e diversa. In questo senso i due differenti punti di vista, del credente e del non credente, non potranno mai avvicinarsi fino a confondersi, perché li separa ineluttabilmente quel mistero che è la fede.

E tuttavia anche il credente, convinto che i morti vivono in eterno, non riesce poi a districarsi nel tentativo di dare una qualche forma e consistenza a quella realtà di cui afferma l’esistenza. E d’altro canto, il negatore di un’altra vita, che si batte per difendere e salvare la propria illusione, non è forse più vicino alla verità di colui che si accontenta di riaffermare, come un fatto che non può essere negato, la risurrezione dei morti? Come dimenticare quel grido veramente degno del libro sacro: “Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani”? Davvero, il credente che “sa” che la persona amata è ancora viva lassù, si trova più vicino a Dio di colui che si abbandona a questa “corrispondenza d’amorosi sensi”, a questa capacità di far vivere il vivo in comunione col morto, e il morto accanto al vivo?



Certo, il culto delle tombe non è fede, vale la pena di ripeterlo. Ma esso può diventare poesia e preghiera, addirittura uno slancio ad afferrare il mistero, se il poeta può chiamare “celeste”, divina, quella comunione di affetti tra i vivi e i morti.

Del resto, poesia e preghiera sono davvero così lontane da quella che noi pensiamo sia la fede? Quale incenso raggiungerà mai le altezze cui può elevarci il verso del poeta? “E spesso / per lei si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi se pia la terra / che lo raccolse infante e lo nutriva / nel suo grembo materno ultimo asilo / porgendo, sacre le reliquie renda / dall’insultar dei nembi e dal profano / piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, / e di fiori odorata arbore amica / le ceneri di molli ombre consoli”.

E’ vero, il culto dei morti è spesso ostentazione di orgoglio da parte dei vivi. Ma l’autentica e avvertibile carezza che accompagna in questi versi le parole del Foscolo rende sacrilego anche il solo rimando a una della tante profanazioni delle cose più grandi.

Solo colui che è passato nel mondo senza lasciare traccia di sé, chi non ha amato e non si è lasciato amare, può pensare con indifferenza al destino del proprio corpo abbandonato nella morte. A tutti tornerà alla memoria un famoso passo del Purgatorio dantesco, là dove Tancredi sembra avvertire, anche dopo morto, la solitudine e il freddo, lo spregio del proprio corpo gettato “alle ortiche” dai predicatori della risurrezione (Dante, Purgatorio III, 130-132)

Il poeta conosce anche un triste e penoso culto dei morti, che usiamo attribuire all’oscurantismo medievale, ma che ha conosciuto anche tempi ben più recenti. “Non sempre i sassi sepolcrali ai templi / fean pavimento; né agl’incensi avvolto / de’ cadaveri il lezzo i supplicanti / contaminò…”. Da quel culto, caratteristico anche di certe epoche della fede, il poeta si ritrae inorridito, presentando, a fronte di quello, un tipo di culto che avvicina i vivi e i morti, gli uni e gli altri non perduti e spenti, ma dal rito affratellati. “Ma cipressi e cedri / di puri effluvi i zafiri impregnando / perenne verde protendean su l’urne / per memoria perenne e preziosi / vasi accogliean la lacrime votive”. La natura che sopravvive all’uomo si raccoglie per custodirne il corpo come in un’urna votiva, e il cielo stesso e il sole e la luce del giorno trasformano e ravvivano l’aria all’intorno. “Rapian gli amici una favilla al sole / a illuminar la sotterranea notte”. I lumi di cera sono diventati una scintilla rapita al sole.

Come sottrarsi all’emozione di un ambiente da cui la morte come ultima parola sembra bandita per sempre? “Le fontane versando acque lustrali / amaranti educavano e viole / su la funebre zolla; e chi sedea / a libar latte e a raccontar sue pene / ai cari estinti, una fragranza intorno / sentia qual d’aura dei beati Elisi”. Pietosa insania! commenta il poeta negatore. Forse, ma c’è davvero qualcuno che leggendo il carme foscoliano preferisca fermarsi a questa “logica” della ragione, anziché lasciarsi trasportare dalla liturgia dei versi che creano una realtà più vera di quella che ci si stringe intorno a soffocarci? “Ci salverà la bellezza” è stato scritto. Ed è appunto la bellezza musicale del verso che compie la mistagogia di un rito che ci sottrae alla banalità del quotidiano.

La seconda parte del carme affronta il tema da tutt’altro punto di vista. Il più grande interprete del Neoclassicismo italiano, il miracoloso creatore di A Zacinto costruisce un grandioso pannello storico, un eloquente discorso sulla sopravvivenza dei grandi della storia. Prendendo le mosse da Santa Croce, tempio delle glorie italiane, il poeta si sposta gradualmente verso la terra di Grecia, dove i miti cantano gli eroi e dove la vera grandezza sopravvive anche all’apparente sconfitta e alla morte. Per finire con quel monumento al più grande di tutti gli eroi sconfitti della storia: “e tu onore di pianti, Ettore, avrai / ove fia santo e lagrimato il sangue / per la patria versato e finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane”. Non finché il sole continuerà a splendere, come spesso si interpreta, ma finché l’uomo terrà accesa dentro di sé la speranza che sfida la morte. Finché sulla propria apparente sconfitta egli non smetterà di accendere il Sole delle proprie illusioni.