Lettore, attento: in questo libro troverai pane per i tuoi denti di appassionato di arte, di dotte curiosità, di raffinate coincidenze: Filippo Tuena, con Le galanti. Quasi un’autobiografia (Il Saggiatore, 2019) ci immerge, ma forse sarebbe più giusto dire ci travolge, in un singolare labirinto senza centro, in un’affascinante foresta di quadri, sculture, incisioni, opere architettoniche, siano essi pezzi sconosciuti o capolavori acclamati dell’arte di ogni tempo e latitudine. Il lettore ne risulta spiazzato, ma piacevolmente, travolto, in un dolce naufragio che è simile al passeggiare in una Wunderkammer, ordinata dal suo padrone e organizzatore secondo criteri intimi e personalissimi, mescolando l’ufficialità della grande arte con l’impressione personale che rende intimo e colora di una sfumatura peculiare un ricordo associato a una visita in un museo.



Per cui, ad esempio, Tuena ci spiega la tecnica per realizzare un puzzle, uno di quelli difficili, che sfidano la nostra pazienza, come quello che ricompone l’immagine di Giovanna Tornabuoni ritratta dal Ghirlandaio nella tela esposta a Madrid al Museo  Thyssen-Bornemisza, inframmezzando i suoi consigli e osservazioni con il racconto delle vicende del quadro, e prima ancora del soggetto in esso ritratto: la bellissima Giovanna, una delle ragazze più in vista della Firenze del XV secolo, destinata però a morte precoce.



Come recita la premessa, in questo libro si parla di “Sparta, Micene e sculture arcaiche greche; Skopas, Photos e Cratilo; l’Ermafrodito Borghese e Gian Lorenzo Bernini; Domenico Ghirlandaio e Lorenzo e Giovanna Tornabuoni, Michelangelo e San Lorenzo; il Meccanismo di Anticitera e Watteau; Fantin Latour e le sue modelle; Géricault e la Zattera della Medusa; Mazzarino e le sue collezioni; un’edizione dell’Orlando Furioso e una delle Eroidi; un’edizione dell’Odissea e le sirene”; e di tanto, tanto altro ancora.

Più che dentro una Wunderkammer, leggendo Le galanti sembra di essere sbalzati tra i corridoi di un palazzo della memoria, ed è l’autore stesso ad autorizzare l’analogia, con questo incipit: “Immagina di percorrere una sorta di galleria con pareti di alabastro traslucido come si diceva fossero in alcuni casi quelle dei più preziosi edifici egizi o della Roma antica. Il tuo procedere è diretto e determinato, e tuttavia le pareti quasi trasparenti t’impongono (o impongono alla tua curiosità) di guardare anche altrove e quel che vedi velato oltre l’opacità della pareti ti colpisce nel profondo, perché sembra appartenere a qualcosa di perduto e ritrovato (…) E rammenta: qualsiasi figura che ti apparirà durante il percorso ti sorprenderà perché in quel modo un po’ dissennato di cui parla Agostino d’Ippona – a frotte senza controllo impreviste e disorientate come cuccioli o bambini – ti si faranno incontro altre immagini che rimandano a esperienze passate”.



Ed è proprio questo il fascino del libro: nasce da una profonda familiarità, da una quotidianità di frequentazione con l’arte, quando questa contiguità è anche e soprattutto esistenziale, e accompagna la riflessione e i ricordi, a partire da quello che apre il volume, a proposito di una cena “in una casa lussuosa, quasi una casa museo, piena di opere d’arte; la casa di un collezionista o di un mercante importante. Tra i commensali, mia madre e mio padre; l’antiquario amico più caro di mio padre; lo storico d’arte da cui ho appreso l’importanza dei documenti e che le buone idee non fanno la storia ma aiutano a ricostruirla; la moglie del padrone di casa”.

E fra aneddoti che accompagnano le portate in questo ricordo che ha i tratti del sogno (o sogno che ha i tratti del ricordo), inizia il percorso delle mille storie del libro, percorso all’apparenza divagante, ma che ha in realtà una sua logica interna, itinerario quasi iniziatico, che necessita, per venire assaporato davvero, di un tempo interiore, diverso dal tempo frenetico delle nostre giornate, e che mescola ricordi di viaggi a intuizioni, a partire dal primo episodio raccontato: una visita a un museo greco. Ma il Museo in questione non è quello dell’Acropoli di Atene, così ovvio – e direi anche, luminosamente ovvio – nella sua magniloquenza; no, Tuena, con gusto impeccabile per i tesori appartati, inizia il suo racconto da una visita a Sparta, la città vincitrice della Guerra del Peloponneso, che però ha lascito di sé memorie assai meno grandiose di quelle della sua eterna rivale Atene. Ed ecco lo sguardo penetrante del vero appassionato che nell’arte si è formato, appena giunto a Sparta: “Il tempo ha annientato il superfluo e risparmiato appena lo stretto necessario. Perché a Sparta c’è un’aria brusca di cose impellenti e di essenzialità che non si ritrova altrove in Grecia”.

E da qui, da un rilievo scultoreo che rappresenta un abbraccio, forse fra Elena e Menelao dopo la guerra di Troia, forse fra Elena e Paride al momento, dieci anni prima, del loro turbinoso innamoramento, Tuena costruisce una lunga riflessione, intrisa di una conoscenza quasi sapienziale della letteratura greca, sulla figura di Elena, nata da stirpe regale in quegli stessi luoghi visitati dall’autore dopo oltre duemila anni. La sua figura, le molteplici letture, varie e direi proteiformi, che di lei sono state date nei secoli, la fascinazione della bellezza che spira dal suo nome, proprio dal fatto che “non si lascia afferrare, sfugge, sguscia come un’anguilla, inganna e convince”, in fondo ha qualcosa in comune con una delle caratteristiche sottilmente affascinanti di tante opere su cui si sofferma Tuena in queste pagine, e dell’arte in generale: una misteriosa, ambigua duplicità.