Dalle sponde del Mediterraneo ci raggiunge un’indicazione sconcertante, eppure dolcissima e vera. L’8 dicembre 2018 verranno beatificati 19 religiosi cattolici: suore, consacrati, monaci, un vescovo. Morti innocenti in Algeria per mano di gruppi islamici armati. Papa Francesco ha accelerato il processo di beatificazione definendoli «oscuri testimoni della speranza». Nell’infuriare di una guerra civile tra islamisti ed esercito. Una pagina di storia che ancora offende, tra il 1992 e il 2001. Colpisce il riferimento del papa alla speranza. Perché la speranza è strettamente legata alla vita. Di più: attaccata. Ed è nella vita, soprattutto nella testimonianza ordinaria, quella che costruisce tutti i giorni, che emerge la statura — appunto umana e perciò cristiana — di quelle donne e quegli uomini, della piccola Chiesa algerina: davvero una delle più belle pagine della storia del 900. Questo significa amare un Paese, stimare la diversità e servire l’amicizia. Una presenza contagiosa, un fatto che permane. E che molto dice a ciascuno di noi, che siamo al di qua di quel lembo di Maghreb, che nell’ordinario giochiamo la nostra partita quotidiana. Loro — i 19 martiri — non cercavano la morte. Amavano la vita. E questo si vedeva. Lo vedevano. Un “vedere” che attraeva. Che generava qualcosa di nuovo, di diverso, di sorprendente. Di inaudito. Qualcosa che c’è ancora: il loro sacrificio ha aperto ad una novità che oggi ci interroga tutti. Che vale nel presente.



È questa la cifra della vita dei monaci di Tibhirine, delle suore e dei “padri bianchi” della Casbah di Algeri, che hanno deciso di mettere la propria esistenza al servizio del popolo algerino. “È il modo della presenza della Chiesa in Algeria: essere Chiesa algerina, per una popolazione musulmana” ha raccontato padre Thomas Georgeon, postulatore per la causa di beatificazione, nel dialogo con il cardinale Angelo Scola all’incontro “Dare la vita cambia il mondo. La proposta degli uomini nuovi di Algeria”, un incontro organizzato dal Centro Culturale di Milano in occasione dell’uscita del libro “La nostra morte non ci appartiene”. La storia dei 19 martiri d’Algeria, scritto da padre Thomas Georgeon e dal giornalista Christophe Henning, edito da Emi.



Ma in che senso la speranza e non la morte è stato l’ultimo atto di questi cristiani? La furia dei fanatici islamisti infatti non li ha colti di sorpresa. Molti stranieri durante quel decennio decisero comprensibilmente di fuggire, ma questi cristiani no e non si capisce la loro decisione se non si comprende che essi sono stati chiamati “a vivere l’alterità, ad accogliere l’altro nella sua differenza d’origine: il vangelo ci chiede di amare anche i nostri nemici, è esigente con noi ma è una grazia perché ci permette di andare oltre le nostre paure e ci impedisce di rimanere soli”, ci racconta padre Georgeon.



Dunque il martirio di questi uomini ci apre alla testimonianza della loro vita: una vita al fianco degli algerini a cui hanno donato spazi di studio e incontro per gli adolescenti come la biblioteca di via Ben Cheneb, nella casbah di Algeri, dove fratel Henri Vergés e suor Paul-Hélène vennero assassinati da un commando islamista nel maggio del 1994. Il cardinale Scola ha affermato che la loro eredità risiede “nella fecondità del loro sangue sparso, che è il seme dei cristiani”. Incredibile rimane il racconto dei 4mila musulmani che parteciparono ai funerali dei padri bianchi tenutisi a Tizi Ouzu, un momento per il quale si fermò tutta la città poiché “questi padri hanno lavorato tanto nelle scuole e nella formazione professionale e gli algerini che ora hanno cinquant’anni e sono andati a scuola da loro affermano che il dono di sé e la bontà umana sono tracce che rimarranno per tutta la loro vita” dice padre Georgeon. O ancora il fatto che oggi il monastero di Thibirine è meta di pellegrinaggio, che talvolta arrivano anche duecento persone al giorno la cui maggioranza sono musulmane. In un’Europa stanca abbiamo forse imparato le parole controcorrente per dialogare con l’altro. Ma rappresentare una vita rende incancellabile il suo esempio. 

Questi sono i frutti della loro opera quotidiana: “i martiri rimangono dei seminatori lucidi perché sanno che non hanno le parole giuste ma cercano di sviluppare questa spiritualità del vivere insieme” sottolinea padre Georgeon. Una convivenza con il popolo musulmano tale che lo stesso padre Christian de Chergé, priore del monastero di Tibhirine, “ha sempre voluto nutrirsi della fede musulmana perché pensava che Dio poteva rivelarci qualcosa di sé stesso nella fede dell’altro”. Parole che contraddicono lo spirito del tempo, che guarda alle religioni come le cause della violenza che c’è nel mondo e non come “parte della soluzione” (Cardinale Jean-Louis Tauran).

Ecco allora che questi testimoni ci svelano cosa sia quello che viene chiamato “il martirio della speranza”: “dare la propria vita non significa essere ucciso, è dare nel dovere, nel silenzio, nel compimento onesto del nostro dovere quotidiano”, diceva padre Oscar Romero, un altro martire recentemente canonizzato da Papa Francesco. “Ai suoi amici Gesù offre la sua croce. La croce ci identifica come appartenenti totalmente a Cristo” scriveva fratel Henri Vergés. Il problema dunque non è che la vita ci chiede di portare delle croci, ma che esiste una speranza più grande che pervade di significato la nostra sofferenza. Tuttavia, per sperare bisogna aver avuto un dono che ti riempie di gioia e la fede di questi martiri è tale dono. Una gioia che non conosce limiti, nemmeno quello della morte, che permea la vita fino alla fine, fino al dono di essa. Ecco perché il martirio della speranza è una chiamata rivolta a tutti. Ecco la fecondità dell’opera dei martiri algerini.