È singolare che nelle tante commemorazioni della Resistenza e nei tanti discorsi sul Primo Maggio Antonio Gramsci sia stato così poco citato. Ragioni di un opposto approccio ve ne sarebbero, e numerose: Gramsci fu dirigente del Partito socialista e, poi, di quello comunista; visse da prigioniero politico la parte iniziale del Fascismo al governo, sapendo additare con dettagliata attenzione il gorgo in cui rischiava di sprofondare il potere politico italiano ed europeo ben prima della presa delle redini da parte di Mussolini.
L’odierno scollamento tematico e affettivo nei confronti di Gramsci, al di fuori di citazioni a orecchio delle sue opere principali, forse nasce dalla memoria convenzionale che ne è stata offerta: il teorico ufficiale del comunismo italiano, con tutti i limiti culturali di questa operazione di ceto politico, dagli anni Sessanta ad oggi.
L’eredità e la tradizione comunista ne hanno fatto il primo degli “eletti”, l’ispiratore di una dottrina che poteva dirsi autosufficiente e comunque migliore delle altre, anche e soprattutto quando in condizioni di minorità elettorale. I riformisti, dissoltisi e discioltisi in una varietà di sigle e movimenti, hanno fatto di Gramsci l’antagonista di comodo della “prima” sinistra (la vecchia, la storica, l’istituzionale, l’incistata), a dispetto di Filippo Turati, protagonista, secondo questa dogmatica, della “seconda” (quella dinamica, quella riformatrice, quella libertaria). Il discorso si addentra con una sua dignità nel capire le differenze tra socialismo e comunismo nella storia di questo Paese, ma è privo di senso dal punto di vista intellettuale e cronologico (Gramsci è del 1891; Turati del 1857).
Non solo: Turati è il socialista che vive nella cornice istituzionale dello Statuto. Non vuole un’alternativa rivoluzionaria al sistema statutario albertino: è un accanito, valente e coraggioso riformatore, ma in un orizzonte di senso che ha già scritto le sue regole costitutive. Gramsci, e tutta l’analisi politica di Gramsci, nascono contro il perimetro dello stato liberale ottocentesco, di cui il filosofo italiano comprende i limiti e le derive.
È la stessa opposizione, spesso artata, che si è attribuito esservi tra il dirigente comunista Fausto Gullo e quello socialista Giacomo Mancini, nei primissimi anni Settanta del secolo scorso. Le differenze politiche tra i due stavano forse nel periodo della Costituente e poi delle prime libere elezioni, quando socialisti e comunisti, però, erano formalmente uniti, a misurare in un gioco di alleanza e coalizione i rispettivi rapporti di forza. Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, Gullo e Mancini non sembrano due sinistre diverse, ma due distinte sensibilità in un medesimo solco d’azione politica: il garantismo processuale, le riforme laiche della codificazione civile, la ripresa d’intervento della legislazione sociale nell’interlocuzione reale con le lotte che iniziano ad accendere il clima di quegli anni.
Gramsci e Turati presidiano due opposte letture della politica più negli occhi dei posteri che in quelli dei contemporanei, almeno fino a un lungo tratto, almeno fino alla scissione tra socialisti e comunisti al Congresso di Livorno. Primo segretario del Partito Comunista d’Italia è, però, l’internazionalista Amadeo Bordiga, presto emarginato dal partito già negli anni Venti, quando i comunisti fluttuano tra un regime i cui prodromi non hanno inteso e un’idea di collaborazione con le altre forze politiche che non porta a risultati apprezzabili e che è ricompensata con una violenta repressione delle libertà civili e politiche (anche quelle che lo Statuto del Regno, almeno sulla carta, dichiarava di difendere).
Più che l’introflessa proiezione di un “dopo” interpretato secondo le ragioni dei vincitori, Gramsci è il vitale affresco del “durante”, vissuto e compreso secondo le ragioni dei vinti.
Comprende l’importanza strategica della questione meridionale, anche a fini insurrezionali, per quanto il suo programma per il Mezzogiorno sia eminentemente pratico, di grandi interventi, di sostanziale liberazione sociale e non di avventurismo fino a se stesso. Concepisce l’idea dell’egemonia culturale come codice di regolazione simbolica dei rapporti tra classi: dettare l’egemonia è detenere il potere, o meglio: è creare i presupposti ineliminabili per mantenerlo e detenerlo.
Elogia Oriani quando parla di “rivolta ideale”, con la differenza che per Oriani essa richiama la presa del potere di un nuovo Cesare (facendone perciò caposaldo della letteratura mussoliniana), mentre per Gramsci se quella rivolta ha un nome e uno scettro questi sono del partito operaio che esce fuori dalle sue non addomesticate e non addomesticabili letture del Principe di Machiavelli – peraltro talvolta ignare della prosa studiatamente invettiva dell’illustre predecessore.
Gramsci, ancora, non condanna la religione immaginandola come da sopprimere nella salvifica forza distruttrice dell’ateismo di Stato, ma ha parole di fuoco contro i fenomeni profittatori del clericalismo. Non comprende a dovere il sansepolcrismo e l’adunanza di Milano che dà via al Fascismo, a quel “Fascismo-movimento” caro a De Felice ma che poi è ben presto cannibalizzato dal trasformismo italiano – coi tanti neogerarchi che vantano la loro mai avvenuta partecipazione ai primi raduni, subito dopo la marcia su Roma.
La sua estetica concettualizzata alla funzionalità dei bisogni sociali gli fa tenere in sospetto la Scapigliatura milanese e i Crepuscolari, eppure in quelle mani dita diverse mettono all’indice problemi simili: la posa ribellista degli Scapigliati e l’ingrigito disfacimento personale e affettivo del crepuscolarismo sono altre voci dell’Italia nascosta dallo Statuto, dall’unità e poi dalla Prima guerra mondiale. Un’Italia che poco aveva a che festeggiare nella sua prima industrializzazione. Gramsci aveva capito, ma forse in fondo poco compresero i suoi compagni di viaggio. Del tempo suo, e di quelli venuti dopo.