La nostra è la società dell’apparenza. Il dare prova di esserci, qui e ora, è lo spirito del nostro tempo. Oggi viviamo nel momento. L’attimo è diventato la nostra espressione primaria, la categoria con cui ci rapportiamo con il mondo e con gli altri. Sembra quasi che nella società in cui viviamo siamo arrivati a una rivisitazione del motto cartesiano seicentesco: al posto del cogito ergo sum è subentrato l’“appaio dunque esisto” (il pensiero è relegato come roba per vecchi o gente di un’altra era). Di fatto una coscienza come la nostra impregnata di spirito fenomenologico, vale a dire di corrispondenza tra ciò che vale e ciò che si mostra, non può che vedere in cattiva luce tutto ciò che si nasconde, quasi che nel non esistente, o meglio, in ciò che non appare, vi sia addirittura un principio morale negativo.
Sembra un paradosso che una società nichilista come la nostra abbia l’orrore del nulla. Il nulla è la mancanza di essere, eppure se non si è, o meglio, se non si appare, non si esiste. Horror vacui all’ennesima potenza.
Di questo luccicante ma sommamente effimero culto del presente, di questo “presentismo” imperante, si parla nel libro Prigionieri del presente. Come fuggire dalla trappola della modernità (Einaudi, 2018) di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo. Il volume, presentato domenica scorsa all’Auditorium Parco della Musica di Roma nell’ambito della manifestazione “Economia Come”, è una lucida analisi dello stile di vita moderno, a cui ormai ci siamo tutti assuefatti.
Il giornalista Antonio Galdo ha osservato come un sintomo del presentismo sia l’avvitamento dell’uomo su un tempo circolare. Circolare non nel senso dell’antico tempo greco ciclico, che si fondava sul l’alternarsi delle stagioni e si distingueva dal cosiddetto tempo biblico lineare; ma in quanto l’uomo ne è schiacciato come un macigno. Si tratta di un tempo circolare appiattito nel presente, che non se ne sa liberare e che ci fa vivere come in un circolo vizioso perpetuo, senza alcuna possibilità di liberazione. “Se tu schiacci la tua vita come persona e collettività sul presente, perdi non solo il passato come memoria, ma non hai nemmeno la prospettiva per progettare del futuro” ha osservato Galdo.
Oggi di fatto il presentismo condiziona la nostra vita privata, i rapporti sociali — o meglio social, visto che qualche studioso ha già parlato della fine della società. È un presentismo sostenuto dall’immane potere, automatico e impersonale della tecnologia, che calcola ma non immagina, che pianifica ma non sa cosa siano i sogni, che anticipa ma che non sa rendere conto della dimensione umana unica e irripetibile.
E così siano sommersi dal tempo che fugge, dall’ultima banalità vista come grande saggezza, dal luccicante tweet o post effimero. Sembra quasi che chi non fa parte di questo mondo social cada nella dimenticanza o ancor peggio nell’irrilevanza. Siamo nel regno dell’evanescenza, con un rischio in più: il rancore di chi vede respingere il proprio tempo, di chi non ha tempo o, per dirla in termini hegeliani, di chi non vede riconosciuto il suo tempo. Ci stiamo appiattendo nel circolo del momento, ma non ci accorgiamo del grande rischio di perdere il senso di quello che facciamo e forse anche delle nostre vite.
Il discorso del presentismo si può estendere anche alla politica, che oggi non cerca più quella visione olistica e lungimirante che ci fa trascendere la situazione data, per migliorarla. Si preferisce navigare a vista nelle sicure (e basse) acque della propaganda, invece di rendere conto, come dice Giuseppe De Rita, di ciò che si è detto, senza più calcolare gli effetti futuri, non immediati, del proprio operato. E allora il tempo, la risorsa più preziosa e insopprimibile dell’anima, può perfino diventare un tempo negativo, un tempo non registrato. Può entrare nel vortice del tempo non esperito o rigettato.
Il sociologo De Rita osserva come nella storia vi sia sempre stato il senso del presente che ci sfugge, richiamando l’antica sapienza biblica del tempo escatologico, il tempo della salvezza dell’anima. Oggi siamo lontani da questa dimensione. Viviamo un deficit di progettazione del futuro e ancora prima di memoria. A cosa serve analizzare criticamente il passato se tutto quello che importa è stare sulla cresta dell’onda dei like?
Come uscirne? Tempus fugit scriveva Seneca. Il filosofo romano, citato da Paolo di Paolo, invitava a non gettare via neanche un’oncia del proprio tempo; il tempo occorre viverlo più intensamente, perché è prezioso. Perché il tempo ci appartiene. Soprattutto non ne abbiamo altro. E allora, per sfuggire dalle maglie del presentismo, dovremmo forse cercare dentro noi stessi e comprendere che il tempo è la nostra risorsa più importante. La nostra energia vitale. Non gettiamolo via nell’effimero. Viviamo il presente, ma in maniera consapevole, usandolo per costruire noi stessi e il nostro futuro. Non solo per architettare l’ultimo post più appariscente.