Qualche anno fa portai i figli, allora adolescenti, a fare lunghe gite primaverili sui Monti Sibillini. Su un sentierino sotto il Monte Vettore incontrammo un anziano e gentile signore che si fermò e, lodando i fanciulli per la loro voglia di faticare su dirupi impervi, pronunciò con ampi gesti la sua sentenza: “Laggiù — indicando valli e pianure lontane — c’è la morte. Quassù — guardando le cime vicine — c’è la vita”. Con i ragazzi, adesso più che ventenni ma ancora disposti a salire qualche volta in montagna, ricordiamo ogni tanto quell’incontro, che mi è subito tornato in mente leggendo Paolo Cognetti che usa le stesse parole: “Ne avevo abbastanza del fondovalle e della sua aria di morte, non vedevo l’ora di tornarmene in montagna”.



Un prezioso libriccino, questo Senza mai arrivare in cima, appena pubblicato da Einaudi e molto atteso, due anni dopo Le otto montagne, bestseller di valore. Se quello era un romanzo, più o meno autobiografico, questo è un piccolo diario — anch’esso assai ben scritto — di un trekking in Nepal al confine con il Tibet, sulle orme di Peter Matthiessen che trent’anni fa nel Leopardo delle nevi narrò il suo girovagare in quelle valli, in compagnia del grande naturalista George Schaller alla vana ricerca del felino più elusivo del mondo (Schaller poi lo vide pochi giorni dopo che Matthiessen era partito).



Anche a Cognetti sarebbe piaciuto vedere il mitico leopardo, anche lui ne vede solo le tracce. Ma l’importante non è raggiungere un obiettivo o una cima, essenziale è solo il percorso, “ben più prezioso della vetta è il sentiero, trova un senso in ogni passo”. Le cime sacre tibetane, la Montagna di cristallo intorno a cui cammina Cognetti, e il Kailash in Cina, più lontano, nessuno può calpestarle, ma bisogna girarci intorno, possibilmente in senso orario come insegnano i buddisti, cercando e a volte trovando un senso in se stessi e nel mondo. Allora, la bellezza e le emozioni di un lungo trekking in Himalaya per gli innamorati della montagna sono le stesse — ovviamente su scala diversa — di una gita ad anello in giornata intorno al Monte Cofano sul mare trapanese o intorno al Sasso Bianco sulle Dolomiti bellunesi, due gite tra le più belle che si possano fare in Italia, guarda caso ancora migliori (per esperienza personale) se percorse in senso orario.



Verso la fine del viaggio a piedi, Cognetti vede il Dhaulagiri, lontano e immenso. Il settimo tra gli ottomila, ma la montagna più alta della Terra che sia tutta all’interno di uno Stato e non segni un confine tra Paesi, infatti “le frontiere in montagna sono particolarmente odiose. Se c’è una frontiera è piuttosto tra montagna e città, non tra montagna e montagna”. Sulla parete sud del Dhaulagiri lo sloveno Tomaz Humar realizzò da solo in nove giorni nel 1999 la scalata più difficile mai fatta in Himalaya, secondo Reinhold Messner (uno che se ne intende). Ma dovette rinunciare alla cima…

Dopo aver letto questo libro viene voglia di rileggere, o leggere, Matthiessen (come fa Cognetti portandoselo sempre nello zaino). Il Leopardo delle nevi è uno dei cinque capolavori della letteratura naturalistica degli ultimi cent’anni. Gli altri? I bianchi leoni di Timbavati di McBride, L’anello di acque lucenti di Maxwell, Il falco pellegrino di Baker, L’astore di White. L’ultimo lo ha da poco ripubblicato Adelphi, gli altri forse si trovano usati online.