Il fenomeno del 68 è certamente un punto di svolta del XX secolo (una “cesura”, come ha sottolineato l’allora cardinale Ratzinger), ma proprio per questo vale la pena di smettere di commemorarlo, per coglierne gli aspetti positivi che ci stimolano ancor oggi e le criticità che ha lasciato in eredità all’intero Occidente.



Certamente per la generazione che l’ha vissuto direttamente (tutti quelli nati dalla fine della guerra fin verso la fine degli anni Cinquanta) il 68 è stato, in primo luogo, l’apertura a uno sguardo nuovo sul mondo, col desiderio di essere protagonisti in prima persona di fronte alle numerose contraddizioni che la realtà offriva (e che il sistema tendeva a occultare), pronti a contestare radicalmente ogni forma di autoritarismo.



Quel che però colpisce è che nel ’68 le rivendicazioni siano state inserite in un progetto complessivo tendente non al perfezionamento dell’assetto sociale, che in Occidente stava conducendo tutte le società verso uno sviluppo e un benessere nella libertà innegabile, ma al suo totale cambiamento, al riscatto dalla contraddizione della realtà in quanto tale (“siate realisti: chiedete l’impossibile”).

Si può rilevare che già negli anni immediatamente precedenti al 1968 esisteva in Occidente un fondamento reale per una serie di riforme di largo respiro. Il sogno americano di progresso e benessere nell’alveo di libertà e democrazia che ha affascinato l’Occidente nell’immediato dopoguerra comincia, infatti, ad appannarsi a mano a mano che gli Usa si coinvolgono nella guerra in Vietnam ed esplodono le contraddizioni interne della democrazia americana (e la questione dei diritti civili degli afroamericani si impone a livello sociale).



Si comincia, intanto, a diffondere in tutti i Paesi occidentali (compresa l’Italia che ha realizzato il “miracolo economico” e comincia ad assaporare i primi frutti del benessere) una nuova visione secolarizzata della vita e una nuova forma di organizzazione sociale, la “società dell’opulenza”, cioè una modalità di vita che esaurisce le sue scelte e i suoi interessi nelle soddisfazioni immanenti (“Le giovani generazioni rifiutano la sottomissione al sacrificio delle loro madri. Vogliono il cinema, il ballo, la gita domenicale (…) una casa con il frigorifero e la televisione. Una delle rivendicazioni più popolari è l’aumento del periodo di ferie: il diritto di godere integralmente di quindici giorni da passare in montagna e al mare” – dalla rivista Rinascita già nel 1961). Una vita scandita in funzione dell’opulenza consumistica implica responsabilità di scelte personali svincolate dal riferimento ad assoluti religiosi o etici o politici, in quanto l’autosufficienza produttiva diventa la cifra di un’autosufficienza ideologica di nuovo tipo, tale da “creare automaticamente un potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbie affini” (Pasolini).

La “rivoluzione“ non vuole però riformare il sistema, lo contesta radicalmente (“lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”). Il movimento di contestazione si diffonde a macchia d’olio in Occidente negli anni ’66-67 per poi esplodere nel ’68 con una sincronia degli eventi e delle forme espressive che è sorprendente, in quanto non è stata programmata da alcuna centrale politica.

Il riferimento culturale iniziale del movimento è la teoria critica della società dei consumi di Marcuse (L’uomo ad una dimensione è del 1964), finalizzata al superamento del marxismo tradizionale e caratterizzata dalla fiducia nelle possibilità rivoluzionarie di un nuovo soggetto: i “dannati della terra” del Terzo mondo e chi è disposto a realizzare una nuova rivoluzione antropologica (il cui manifesto programmatico è la prefazione politica del 1966 al suo Eros e civiltà: “trasformare il corpo umano da strumento di fatica in strumento di piacere”).

Agli inizi del ’68 il fenomeno della contestazione socio-culturale dei figli dell’epoca del benessere occidentale diventa internazionale, si diffonde dai campus americani a Londra, Berlino, Parigi, all’Italia, con mobilitazioni giovanili sempre più vivaci e radicali (il “maggio francese” ne sarà il simbolo).

Il 68 è dunque un evento globale, “lo rivela la sincronia degli eventi e la circolazione su scala mondiale delle esplosioni di rivolta, l’omogeneità delle forme espressive, i linguaggi, i protagonisti. Il Movimento non si comunica per imitazione di un altrove (da Parigi o da New York), ma per identificazione entro una totalità spaziale che è il pianeta” (Marco Revelli, Il Manifesto, 24 febbraio 2008).

Dietro la critica di tutti i dualismi della “società borghese” occidentale (privato-pubblico, popolo-rappresentanti eletti, anima-corpo) emerge l’esigenza di riscoprire l’universalità del desiderio di significato dell’uomo e l’impegno a riappropriarsi della responsabilità di un rapporto diretto con la realtà (senza la necessità della mediazione delle istituzioni tradizionali — famiglia, società, Stato e Chiesa — che vengono tutte radicalmente messe in questione).

Si può dire che col ’68 ci fu la riscoperta, se non l’esplosione, dell’io che alza la testa e si ribella alle ingiustizie, all’anestesia e all’accomodamento verso le contraddizioni del sistema in cui si è inseriti.

Il bisogno reale di una maggiore democrazia e di un grado più elevato di giustizia sociale finisce così per ampliarsi e per condurre al rifiuto in blocco dell’ordine esistente e alla convinzione che le contraddizioni e i mali della vita causati da un ingiusto assetto sociale potessero essere definitivamente eliminati. La pesantezza e la costrittività dei legami sociali, l’estraneità immediata del lavoro, la divisione dei ruoli e la loro spersonalizzazione, non vennero più considerati come tare in certa misura insuperabili dell’esistenza associata, bensì mali che avrebbero potuto essere cancellati una volta che i presunti colpevoli fossero stati individuati e puniti; si ritenne che ogni violenza subita dalla persona fosse esercitata in ultima analisi da un’altra persona, e che quindi la si potesse annullare eliminando o convertendo chi la poneva in atto.

Da qui il tema della violenza simbolica come via necessaria per mostrare alle masse che “il re è nudo”, ma che spesso fornì ai vari gruppuscoli rivoluzionari la “scorciatoia” per teorizzare l’approdo, naturalmente giustificato dall’analisi “dialettica” della società contemporanea, al terrorismo.

Nel 68 c’è dunque l’idea di una rivoluzione fondata su un fattore ideale, sulla soggettività, sulla coscienza. Con il 68 l’idea di rivoluzione ha una nuova svolta; essa non consiste più nella conquista del potere, ma nella mutazione della coscienza collettiva, in modo da renderla autonoma dal potere, da farla rimanere diversa da esso pur occupandolo.

La motivazione della rivoluzione diviene la rivoluzione stessa, il porre la propria coscienza soggettiva come fattore rivoluzionario. La rivoluzione occidentale del ’68 non si motiva in nome dei diritti di classe e della ragione, ma delle pulsioni e dei bisogni del corpo: riguarda quindi radicalmente i rapporti tra uomo e donna, tra padri e figli, tra professori e studenti. E’ una vera rivoluzione culturale e antropologica che apre all’idea di una rivoluzione globale utopica, in cui l’utopia diviene forma della politica.

Da questo punto di vista, il 1968 segna l’inizio del diffondersi di un’ideologia di massa, irrealistica non tanto per le istanze che aveva al fondo, quanto per la certezza di poterle realizzare, con un’adeguata prassi politica, nella storia.

Ciò che favorisce il rapido passaggio dalle istanze di liberazione dell’io alla formulazione dell’ultimo progetto utopico della cultura della modernità occidentale è l’esigenza di autoaffermazione senza limiti del soggetto umano tipica della modernità (“vietato vietare”).

Questo spiega la facilità con cui fu accolta da milioni di persone l’utopia sessantottina: l’idea della rivoluzione della coscienza incarna l’ultimo sviluppo di quella visione dialettica della realtà che ha largamente dominato la nostra cultura nel XX secolo (non a caso Marcuse e i marxismi operaisti e terzomondisti sono i riferimenti culturali che più hanno influenzato il 68).

Questo spiega anche perché fu sottovalutato in Occidente il fenomeno della “primavera di Praga”, la contestazione non violenta del marxismo sovietico, che colpì inizialmente tanti giovani contestatori dell’Ovest, ma che ben presto fu interpretata in modo riduttivo come una variante revisionistica del marxismo. Così quando i carri armati sovietici repressero la “primavera” il 21 agosto, lo sdegno fu generalizzato, ma non fu compresa la lezione connessa: l’impossibilità di realizzare un “comunismo dal volto umano” seguendo la visione marxista, lezione che porterà invece gli uomini del dissenso all’Est a riscoprire la via della “persona” come unica strada per il cambiamento.

Queste riflessioni ci conducono a comprendere come, in definitiva, la rivoluzione della coscienza del 68 fosse destinata ad affascinare milioni di persone con la sua carica utopica di bellezza immaginata e desiderata, in quanto inveramento delle promesse culturali della modernità, e insieme come fosse destinata a ottenere successo solo nella pars destruens della sua proposta, cioè nella definitiva critica dei valori e delle tradizioni del passato: il 68 ha vinto nei no che ha pronunciato, ma non è stato capace di trasformare politicamente il mondo.

Questo è accaduto perché la rivoluzione immaginata (“l’immaginazione al potere”) è capace di operare una radicale negazione del reale dato, ma quando in modo utopico pretende di cambiare le condizioni concrete della vita per l’uomo, applicando senza mediazioni culturali e strutturali la nuova prospettiva con cui si guarda all’uomo e al mondo, cade paradossalmente in un radicale immaterialismo che rende praticamente impossibile aprirsi alla realtà in quanto tale e genera un nuovo tipo di disagio e delusione esistenziale, venata di rimpianto per la bellezza sognata che progressivamente si dilegua.

In definitiva il 68 costituisce una reale “novità” nella storia del Novecento, in quanto “evento non prevedibile” da parte delle ideologie dominanti il mondo nel secondo dopoguerra, la smentita di fatto alla loro pretesa di aver afferrato il senso della storia e alla loro convinzione che l’uomo sia fatto per realizzare un fine immanente.

Questa visione viene contestata dal riemergere del desiderio di protagonismo dell’io nella vita, dall’istanza di “liberazione” integrale della propria umanità e dal desiderio di volere “tutto”, ovvero di dare significato a ogni cosa, perché senza significato non si può vivere anche se c’è la pace e il benessere. D’altra parte occorre riconoscere che il 68 formula un sogno di eliminazione della contraddizione della realtà, che si rivela incompiuto perché irrealizzabile sia politicamente sia individualisticamente.

Per approfondire questa strutturale ambivalenza del 68 può essere utile l’ultimo numero di Lineatempo, intitolato “Il 68. Desiderio e sogno incompiuto”, che dedica un’ampia serie di contributi a illustrare le diverse sfaccettature di un fenomeno tanto affascinante quanto camaleontico.

Prendere coscienza che il 68 ha espresso l’ultima ideologia utopica della modernità permette, infine, di riflettere su una delle criticità più gravi lasciateci in eredità da questo evento: l’esperienza del fallimento del 1968 ha reso la coscienza comune molto sospettosa e guardinga nei confronti dei grandi ideali, perché si è finito per ritenere erroneamente che ogni ideale porti, di per se stesso, intolleranza e violenza. Si è giunti, perciò, spesso ad esaltare (specie nel prospero Occidente) il rifiuto della politica e il rifugio nel privato, sviando e degradando nella rincorsa dei consumi ogni residuo disagio e istanza.

A questa mentalità si deve obiettare che quanto genera violenza non è l’ideale, ma la pretesa di realizzare senza residui l’ideale nella storia con una prassi politica sacralizzata e un potere elevato a strumento di giustizia.