Domenica 25 novembre tre quesiti referendari sono stati oggetto di voto in Svizzera. Fra questi vi era quello rubricato “Il diritto svizzero anziché giudici stranieri (iniziativa per l’autodeterminazione)”. L’iniziativa nasceva su istanza del Partito nazional-conservatore svizzero, l’Unione democratica di centro (Udc), nato nel 1971, da sempre euroscettico e oggi su posizioni assimilabili a quelle dei cosiddetti sovranisti.
L’elemento della democrazia partecipativa e la centralità dell’istituto del referendum sono particolarmente rilevanti in Svizzera, dove le consultazioni popolari sono ampiamente utilizzate e valorizzate anche in chiave di revisione costituzionale. Raccogliendo 100mila firme, in base all’articolo 139 della Costituzione elvetica, è infatti possibile proporre un referendum per modificare la Costituzione.
Il referendum sull’autodeterminazione voleva formalizzare, all’articolo 5 della Carta fondamentale svizzera, la supremazia della Costituzione sui trattati internazionali, introdurre un nuovo articolo (56a) che obbligasse gli organi federali, in caso di contrasto fra Costituzione e diritto internazionale, a rinegoziare i trattati e, in ultimo, voleva prevedere, all’articolo 190 della Carta, la vincolatività degli stessi per le corti solo qualora approvati da referendum.
L’iniziativa non sarebbe risultata applicabile allo ius cogens – il diritto internazionale che incorpora i valori fondamentali delle società umane (per esempio, divieto di tortura o schiavitù) – ma, in base alla disposizione transitoria prevista, si sarebbe applicata sia ai trattati vigenti – già conclusi – che a quelli futuri.
La lettura di questa disposizione nel complesso panorama politico svizzero, così come la provenienza della proposta e le dichiarazioni politiche a essa correlate, avrebbero fatto propendere per un suo possibile utilizzo massiccio in funzione anti-Ue, onde limitare i numerosi trattati intercorrenti fra Ue e Svizzera e rallentare o arrestare l’integrazione silente fra i due ordinamenti.
Per far capire la portata di questo intervento di ingegneria costituzionale, che altro non faceva che rendere più rigido e vincolante il tipo di approccio esperibile dalla Svizzera in materia di diritto internazionale, si può esplicitare l’esempio riportato nelle schede illustrative della proposta: l’eventuale approvazione di un’iniziativa popolare che avesse reso incompatibile il diritto nazionale con quello internazionale avrebbe comportato la necessità immediata di rinegoziare i trattati.
Da questo punto di vista, infatti, rispetto alla prassi che prevede in simili occasioni la possibilità di azione flessibile da parte degli organi federali e il contemperamento della volontà popolare espressa nei referendum con gli obblighi derivati dai trattati internazionali, l’eventuale approvazione di tali misure avrebbe comportato un meccanismo più rigido e meno flessibile, che avrebbe lasciato veramente pochi margini di manovra al Governo federale e imposto la rinegoziazione del trattato o, come ultima ratio, nel caso di impossibilità di raggiungere un accordo, la sua denuncia.
Un ulteriore elemento da sottolineare era la limitata vincolatività che i trattati avrebbero potuto assumere per i tribunali, salvo la loro approvazione tramite votazione popolare: questa menomazione della loro efficacia normativa avrebbe potuto impattare anche sull’applicazione dei trattati sui diritti umani da parte dei Tribunali elvetici, da sempre elemento peculiare del sistema di protezione e garanzia dei diritti in Svizzera.
Per il respingimento di questa iniziativa si erano pronunciati sia il governo federale, di cui fa parte anche l’Udc, sia il Parlamento elvetico. Nessuna contraddizione vi era nel fatto che l’Udc facesse parte del governo (il Consiglio federale) e promuovesse contemporaneamente un’azione di tal tipo: l’ordinamento svizzero, infatti, è un sistema direttoriale e consociativo, che incoraggia la convergenza e l’incorporazione di quasi tutte le forze politiche nell’organo esecutivo e che distribuisce proporzionalmente le sette cariche di cui è composto in base al peso politico di ogni schieramento. Anche l’organo legislativo si era espresso contrariamente al referendum, invitando a votare no: in particolare, il Consiglio nazionale (la Camera eletta a suffragio proporzionale di rappresentanza del popolo svizzero) si era espressa con 129 voti contrari e 68 a favore, mentre il Consiglio degli Stati (la Camera rappresentativa dei cantoni con due rappresentanti per cantone, salvo i semi-cantoni) ne aveva sconsigliato l’approvazione con 38 voti contrari e 6 a favore.
Dal punto di vista giuridico, inoltre, appariva certamente fondata l’obiezione sulla non esplicita chiarezza del quesito, a tratti ambiguo e a tratti proprio non comprensibile, come rilevato dal Consiglio federale e dal Parlamento; perlomeno dal punto di vista del drafting legislativo la proposta era sicuramente migliorabile.
Il secondo spunto di rilievo è l’utilizzo che si sarebbe potuto fare di questi istituti sottesi da una visione monista dell’ordinamento svizzero e da una visione assolutista della volontà popolare. Volontà popolare che non avrebbe potuto, come esemplificato dal caso proposto, essere in alcun modo mediata da altre istanze in relazione a tutto un segmento dell’ordinamento, quello del diritto internazionale pattizio, che è connaturato, al contrario, da elementi negoziali e poco si presta a dinamiche di imposizione unilaterali.
La suddetta elevazione della volontà popolare non mediata e non mediabile era sicuramente una caratteristica dell’iniziativa, che – riducendo ulteriormente forme e luoghi di mediazione – risultava di difficile compatibilità fattuale con sistemi dalla notevole complessità come la legislazione e l’ordinamento della Ue. Una proposta, dunque, che poteva essere “cattiva maestra” per molti e la cui portata in termini di trapianto giuridico o, meglio, di tentativi di emulazione poteva essere deleteria e fornire risposte semplici(stiche) a problemi complessi.
Questa è una tematica che può sicuramente risultare da monito anche per il nostro Paese, che ad oggi risulta caratterizzato da un testo costituzionale (articolo 10; articolo 75; articolo 97 e articolo 117 della Costituzione) e da una giurisprudenza costituzionale che assegnano un ruolo più “rafforzato” e puntuale al diritto internazionale e a quello della Ue, ma soprattutto che delineano una forma più mediata di interazione fra diritto internazionale e volontà popolare.
Il risultato della votazione ha, infine, sancito il respingimento dell’iniziativa, sia a livello di maggioranza dei cantoni che di quella popolare, destinando così il provvedimento a perdere qualsiasi efficacia. È stata così scongiurata la prospettiva di un uso sovranista del referendum.