L’ultimo libro di Eugenio Mazzarella, intitolato Il mondo nell’abisso. Heidegger e i Quaderni neri (Neri Pozza 2018) costituisce a mio parere non solo un contributo illuminante su una delle discussioni più chiassose della filosofia “mediatica” odierna (quella sul presunto “antisemitismo” heideggeriano), ma un’occasione preziosa per tornare a riflettere sul compito che, con Heidegger e oltre Heidegger, vale ancora la pena assegnare alla filosofia del nostro tempo.
Iniziamo dal tentativo (riuscito) di “stoppare” quella che da un po’ di tempo ormai gli studiosi più attenti del pensiero heideggeriano hanno chiarito come un’accusa che non riesce a cogliere il suo obiettivo. Intendiamoci, che Heidegger per un certo periodo della sua vita, soprattutto quello in cui maturò l’accettazione della carica di rettore all’Università di Freiburg (1933), avesse visto nel nazionalsocialismo una promessa di riscatto spirituale del popolo tedesco, nella sua missione planetaria di tenere accesa la fiamma della domanda sull’essere, contro l’oscuramento che la minacciava da parte della Russia e dell’America, è un fatto certo e a lungo indagato.
La polemica giornalistica è scoppiata con la pubblicazione di alcuni dei cosiddetti “Quaderni neri” (quelli redatti tra il 1931 e il 1948), finora inediti ma destinati dallo stesso Heidegger ad una uscita postuma. In essi – questo il motivo dello scandalo – il filosofo parla in alcuni brevi passaggi dell’“ebraismo mondiale”, non in senso biologistico o razziale (come avveniva di fatto nella propaganda del regime nazista), ma come una “figura” emblematica dello sradicamento dalla terra, dell’attitudine calcolante e della strategia di auto-annientamento tecnico del mondo e dell’umano, che costituiscono le caratteristiche salienti della storia della metafisica occidentale. Quest’ultima, connotata sin dall’origine in un senso profondamente nichilista, sarebbe segnata indelebilmente dal predominio delle rappresentazioni e delle macchinazioni del soggetto moderno (cioè ebraico-cristiano), il cui esito sarebbe la perdita irreparabile dell’interrogazione circa la verità dell’essere.
Mazzarella mostra, con tratti rapidi ma efficaci, che in realtà qui non ci troviamo affatto di fronte ad una strategia di antisemitismo metafisico o ad una giustificazione ontologica della demonizzazione degli ebrei diffusa all’epoca, bensì di fronte alla triste e imbarazzante perdita di lucidità filosofica (e forse anche psicologica ed esistenziale) di un “piccolo borghese tedesco nazionalista, frustrato nel suo nazionalismo dagli esiti di due guerre mondiali disastrosamente perse” (p. 21).
Certo, resta la domanda stupita di come ha potuto essere questo l’esito del percorso dell’autore di Essere e tempo: in quest’opera Heidegger aveva percepito, e addirittura patito, la crisi dell’umanità europea del Novecento come la crisi di un’esistenza metafisicamente inautentica; ma a partire da essa aveva ripensato una possibile “autenticità”, identificandola con l’angoscia dell’esser-gettato nel mondo. Questo vuol dire che l’uomo, l’esserci, è consegnato all’impossibilità di venire a capo della sua provenienza e del suo destino, e ciò nonostante è ridestato, dentro questa sua impossibilità, a chiedere il senso di questo stesso “impossibile” — cioè dell’essere stesso —, senza accontentarsi di ridurlo agli enti con cui commerciamo e traffichiamo nell’anonima e omologata quotidianità intramondana.
Sta di fatto che, secondo Mazzarella, a un certo punto “l’angoscia del mondo” (intesa in un senso assai fecondo per il pensiero filosofico, come la condizione per riproporre la questione fondamentale finora dimenticata) cede il passo a un’”angoscia di fronte all’Essere” stesso (p. 77), come un “abbuiamento gnostico della stessa domanda sull’Essere” (p. 79), che non fa più i conti con l’evento storico del mondo, ma si abbandona ad una sua negazione, “a un radicale anticosmismo”, in cui l’io giunge ad “una contrapposizione di principio al mondo nella sua totalità” (p. 80).
L’ebraismo e il cristianesimo, la storiografia e la tecnica, la scienza e la religione, la cultura e l’università sarebbero facce di un unico prisma, quello dell’abisso in cui sprofonda ogni domanda autenticamente filosofica sull’Essere. E da parte sua, la storia effettiva del mondo va tenuta a distanza (e così di fatto giustificata, suggerisce Mazzarella) nel silenzio metafisico che nasce dalla decisione di tacere da parte dei “pochi” che comprendono la tragedia del mondo. Un “disimpegno apocalittico” (p. 17) rispetto alle sfide della storia, in cui rischia di perdersi proprio quella storicità ontologica della vita che era una delle intuizioni più promettenti del “primo” Heidegger.
A fronte di questa condizione del filosofo, tutto immerso nel destino di “autoannientamento dell’Occidente [inteso in senso greco-ebraico-cristiano] nella ragione strumentale della tecnica moderna” (pp. 33-34), le accuse di “antisemitismo istoriale” risultano essere una sorta di “oltraggio inutile a un vicolo cieco del pensiero di Heidegger”, il quale secondo Mazzarella, negli anni Trenta e Quaranta sarebbe stato colpito da “una lunga obnubilante frustrazione di pensiero” (p. 21), come documentano appunto i Quaderni neri. Ma c’è di più: le stesse “notazioni geo-politiche” che Heidegger propone sulla “questione ebraica” si riducono a “banalità propagandistiche assorbite senza consapevolezza” (p. 34). E sulla stessa linea indicherei un altro libro “demitizzante” sulla stessa questione, quello di Jean-Luc Nancy intitolato Banalità di Heidegger (in italiano da Cronopio).
È di un vero e proprio imbarazzo, dunque, che si tratta, piuttosto che di uno scandalo politico: è “inutile perderci tempo”, raccomanda Mazzarella, che volentieri estende ai Quaderni neri quello che Hannah Arendt notò in una lettera del 1949 a Jaspers, a proposito di alcuni testi su Hölderlin e Nietzsche scritti dal suo pur amato Heidegger: “chiacchiere e nient’altro”. E questo non per demolire o sminuire il filosofo, bensì proprio per tornare e approfondire “quel che di lui conta sul piano della storia del pensiero, e che resta tanto” (p. 39).
Per questo, come dicevo, l’utilità del libro di Mazzarella è che dopo aver “stoppato” la querelle sulla metafisica nazi-antisemita di Heidegger, rilancia il suo impulso al pensiero contemporaneo, delineando una traiettoria che dalla prima fase (quella di Essere e tempo), saltando molte delle cose degli anni Trenta-Quaranta, arriva agli anni Cinquanta, quelli in cui Heidegger si impegna maggiormente sul nesso metafisica-storia-tecnica. Nell’“abisso” dei Quaderni neri si era imposta la figura di un “pensatore contro la tecnica”; nei più “meditati” anni Cinquanta e Sessanta (paradigmatico è il saggio heideggeriano intitolato appunto Scienza e meditazione, ma le cose cambiano già alla fine dei Quaranta con la Lettera sull’“umanismo”) si delinea invece la presenza di “un pensatore della tecnica”, proprio perché egli non intende più quest’ultima come una perdita irrecuperabile della verità dell’essere e del mondo, ma ne ripensa l’essenza come qualcosa di non-tecnico. Ciò significa che Heidegger “[pensa] del pensiero – della condizione umana nelle sue radici “storiche” di evento di natura e cultura – ciò che non può mai ridursi a pensiero calcolante; e anzi ne è la condizione di senso e di possibilità” (pp. 56-57).
In altri termini, riprendendo il celebre verso hölderliniano secondo cui “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva” (dall’inno Patmos), qui si presenterebbe in Heidegger un “dispositivo di salvezza del presente da se stesso custodito nelle sue pieghe”, la “possibilità di un accesso alla verità dell’Essere pur nel tempo della sua massima dimenticanza”, che invece “è assente del tutto” nei Quaderni neri (p. 57).
Ma, di nuovo, come sarà possibile questa “possibilità”, che per certi versi va identificata come una vera e propria “impossibilità”, se dovessimo calcolarla con le rappresentazioni della tecno-scienza, e cioè della stessa metafisica che ha dimenticato il mistero dell’essere appiattendolo sulla gestione degli enti? L’impossibile sarà possibile nel momento in cui il pensiero filosofico si “[insedia] nel terreno sorgivo dell’essere, come ciò che da sempre mi sopraggiunge e mi viene addosso” (p. 69).
Il tentativo discreto, ma deciso, nella ricostruzione proposta da Mazzarella di quest’“ultima” possibilità del pensiero heideggeriano, è quello di leggervi in filigrana la traccia nascosta dell’esperienza greca del mondo, come un’”ontofania” o una “mistica ontologica”, in cui noi siamo “fusi” nella coappartenenza con il mondo in cui si manifestano le cose. E forse anche l’allusione (mai positivamente teorizzata però dal filosofo, anzi il più delle volte neutralizzata o combattuta) all’esperienza della mistica paolina, lì dove “il distacco dal mondo, dalla routine quotidiana, non è la sua condanna, ma il guadagno per esso di una via di salvezza, in una pietas della distanza per il suo dolore, per il gemito che vibra in tutta la creazione e aspetta il riscatto” (p. 71).
Solo in questa prospettiva infatti il pensiero dell’essere può riconquistare la sua dimensione storica più appropriata, quella dell’evento in cui il manifestarsi del mondo — anche il mondo dell’“impianto” della tecnica planetaria — chiama sempre in causa l’esistenza dell’uomo, e quest’ultima offre lo spazio e il tempo perché possa manifestarsi “qualcosa” di inevitabile e anche irriducibile come l’essere stesso. Nella direzione in cui guarda Mazzarella sembra di capire che tale irriducibilità sorgiva dell’essere, tale manifestazione permanente e sempre possibile del senso è esattamente ciò che può ridestare un’antropologia al contempo metafisica e politica: in essa la storia non è più solo un destino da intercettare ed assumere, ma l’occasione e ancor più la chiamata alla libertà dell’io e alla responsabilità condivisa di un “noi”.