Cos’hanno in comune Edipo, Antigone e Creonte con le sfide che il diritto e il vissuto quotidiano si ritrovano ad affrontare?

Con questa domanda e un libro in mano, il Centro Cultutrale di Milano ha di recente riunito intorno ad un tavolo Luciano Violante, Marta Cartabia e il teologo Stefano Alberto, perché “se le certezze del positivismo sembrano essere spazzate via, non ci si può più attenere a criteri meramente formali o alle semplici procedure”. Insomma, serve ripensare da principio l’eterno conflitto tra legge e diritto, proprio a partire da un testo classico come le tragedie di Sofocle.



Si parte da una (fondamentale) premessa: il pensiero giuridico non può essere “sterilizzato” ma deve piuttosto essere dentro la vita, dentro la realtà. Il giurista, secondo Violante, deve tenere conto del valore della persona e a partire da esso interrogarsi sulla possibilità che esista una “legge ingiusta”. Creonte, Antigone ed Edipo diventano quindi figure paradigmatiche di un conflitto sempre più frequente dentro alla persona del giurista. Legislatore, inquisitore, giudice ed esecutore si mischiano con l’accusato all’interno di vicende in cui il “senza colpa” non esiste. Marta Cartabia lo ha detto espressamente quando, citando un episodio risalente al suo esordio in Corte costituzionale, racconta di quando Paolo Grossi le disse “benvenuta in questo luogo, dove ogni errore che compi sarà in vetrina”.



E’ mettersi in guardia da quel “difetto di conoscenza” (come è il caso di Edipo) che il testo greco indica nel rimanere soggetti alla hybris — una dismisura, anche riformatrice, come ha ricordato il teologo — un potere di sé che non deve niente ad altro, oltre quella intrinseca imperfezione della giustizia umana, fallibilità naturale dell’uomo. Non guardare a quella “impurità” che viene prima dell’errore possibile, è il fondo del difetto culturale di oggi. È questa consapevolezza che deve sempre essere tenuta desta dal giurista, nella coscienza del suo limite: “Entri in camera di consiglio con le idee chiare e poi magari l’intervento di un collega riapre lo scenario”.



Ma come allora aiutarsi in questa operazione di “cammino di conoscenza”? Ancora una volta la risposta arriva, secondo gli autori di Giustizia e Mito, dalla coralità. È il susseguirsi dei personaggi, nelle tragedie di Sofocle, a rappresentare più volte l’occasione per integrare il proprio punto di vista, per aumentare i punti focali del percorso e riaprire lo scenario ad un finale alternativo. Certo, sarebbe più facile avere la formula in tasca, il peso perfetto con cui misurare ogni cosa senza cedere a questo compromesso con la realtà. Cartabia, a tal riguardo, ha ripreso quanto detto magistralmente da Benedetto XVI nell’Omelia che tenne il 26 novembre 1981 ai deputati cattolici del Parlamento tedesco nella chiesa di San Winfried a Bonn. Un passo di grande respiro: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare col cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile. […] Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.

Proprio questa parola “compromesso” nell’Antigone non compare: la vita e il mondo sembrano dividersi in due assoluti che reciprocamente si giustificano, in un abbraccio mortale. È da quest’assenza di un compromesso tra il diritto inalienabile e il dovere inderogabile che emerge la figura tragica della giovane Antigone. Tornando all’oggi, il Fiat lex, pereat mundus sempre in agguato si scontra nel nostro tempo con la spirale dei diritti individuali, esplosi con la globalizzazione. A pagare le conseguenze di questo scivolamento repentino sono stati innanzitutto i diritti sociali come lavoro o salute, fondamentali non solo per la società ma anche per la politica, e con essi il riconoscimento del valore dell’altro. La dissoluzione dello spirito di comunità è figlia del discorso “desideri ergo diritti” e insieme conduce alla morte per suicidio della democrazia. Da qui il rammentare la funzione anche pedagogica della legge e l’invito di Violante a non essere paurosi di riannunciare i “doveri”, con coraggio e idealità, perché in essi si rivela una verità e pertinenza al vivere singolo e comune, mentre invocare solo i diritti si rivela operazione di mero consenso.

Come sfuggire alla trappola della Tragedia? Cartabia in ultimo mostra anche una traccia: non si tratta dunque di applicare uno schema, dai diritti ai doveri, quanto piuttosto di spendere le proprie energie perché i due poli camminino insieme. In questa “sospensione” (per usare un termine caro a Guardini) sta il messaggio da non perdere. Qui sta il compromesso già citato, l’impegno di affermare un principio all’interno di una realtà concreta, cogliendo il valore che l’altro ha e concedendosi, ogni tanto, di poter anche cambiare idea.

Perché in fondo, l’aula di tribunale è (anche) un teatro. Che, come diceva Fellini, è “uno spazio da riempire. Un mondo da creare” (senza hybris).