Non ha la faccia del profeta antimafia: la sua buona educazione fa a pugni con la franchezza letale della sua penna. Che fa male, tanto male. E’ la penna di un giornalista: “Il nostro ruolo — scrive Albert Londres — non è quello di essere per o contro. E’ di girare la penna nella piaga”. Lui, Paolo Borrometi, ragusano, 34 anni, da anni sceglie di metter la penna nella piaga: “Denunciare, indagare, raccontare, reagire al malaffare è prendersi cura della propria terra” scrive in Un morto ogni tanto. La mia battaglia contro la mafia invisibile (Solferino, 2018).
La propria terra, quella che ti ha dato i natali. Che per lui è la Sicilia babba, baciata dal sole, profumata di aranci, limoni e cadaveri. Sale, mare: “Un morto ogni tanto non scalfiva le coscienze, non creava subbuglio”. Arrendersi? Mica è babbo lui: intinge la penna nella piaga, quella che fa purgare la sua terra, e fa purgare lui la piaga. Se l’intensità delle sue indagini si misurasse dalle condanne a morte che pendono sulla sua testa, sta facendo passare l’inferno all’inferno delle mafie: “È un conto molto amaro: col mio lavoro mi sono guadagnato cinque condanne a morte da quattro clan diversi, fra Ragusa, Siracusa, Catania”.
Apparentemente se ne infischiano di lui: lo deridono, riducono tutto a una mera questione di fimmine, sembrano ignorarlo. Poi si scoprono scrivendo “Borrometi sei morto!”. Lo ammazzeranno — perché “Cosa Nostra non lascia inevase le sue condanne a morte” —, giacché lo temono. Allora ha già vinto. Alle minacce dei pipistrelli risponde con nuove domande, inchieste, scavi nei sotterranei criminali. La luce contro le tenebre.
Ha scoperto e scoperchiato l’inferno guardando un pomodoro — non uno qualsiasi, quello di Pachino — sulla tavola di casa. Dove tutti vedevano un pezzo di verdura, lui intravide dell’altro: potenza dei visionari, conflitto dei profeti, forza del genio. Si mise a inseguire il pomodorino dalla raccolta alla distribuzione, fino allo smaltimento di ciò che rimane. Risultato? Loro — le mosche cocchiere della criminalità organizzata — gli si sono messi alle calcagna, appiccicandogli il fuoco alla porta di casa, tentando di farlo ardere come un topo in gabbia. La colpa è in quel suo sguardo sottilissimo, capace di andare oltre la scorza del pomodoro e smascherando la collaborazione tra Cosa nostra, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra corona unita, Stidda. Ha seguito il pomodoro dal campo al cassonetto, facendo tappa a Vittoria-Fondi-Milano (il viaggio magico delle agromafie). E poi ha avuto il fegato di raccontare ciò che i suoi occhi hanno veduto, che le sue mani hanno toccato: “Se il piatto è ricco, sono ricchi anche gli avanzi del piatto dove si è mangiato”.
Un racconto scritto in solitudine, perché il prezzo di certi racconti è il peso dell’isolamento, attutito dall’inutile beatificazione post mortem. Al contrario delle mafie che, pur di non soccombere, fanno gioco di squadra: “La cosiddetta agromafia ha insegnato che a volte fare squadra è molto più redditizio che farsi la guerra”. I figli delle tenebre, disse l’Uomo, sono più scaltri di quelli della luce.
Borrometi, però, non tace. Da una parte, percepisce d’avere fatto della sua penna un cappio al collo suo; dall’altra, giura che non smetterà di dare voce alla bellezza: “Educare alla legalità è educare alla bellezza. La bellezza è potente”. E la libertà va scelta: non siamo condannati alla libertà. L’unica condanna è una schiavitù a vita nei confronti dei boss. Lucifero, pirlone, è latitante di fantasia: ha noia da vendere, pur continuando ad affascinare menti imbelli. Incute, dunque, paura. Che, quant’è ironico il fato, a qualcuno fa venire ancor più voglia di stare in piedi, sulla breccia: “Spezzato, spaventato, ma io resto qui. Resisto ancora. Parlo. Scrivo. Vivo”.
Limoni e cadaveri, zagare e mandarini. Il mare e la merda: “La mafia è una montagna di merda” disse Peppino Impastato. Bum-bum-bum: stecchito. Non hanno stecchito, però, la profezia: Paolo Borrometi ha raccolto il suo mantello, accelerando. Un giorno, forse, l’ammazzeranno: quel giorno gli crederanno. Nel frattempo, regna il silenzio di occhi che non vogliono vedere.