È un anno di ricorrenze importanti questo 2018, lo si è ricordato più volte; una di queste ricorrenze, doppia, cento anni dalla nascita e dieci dalla morte, è quella legata al nome di Aleksandr Solženicyn (anche questa è stata già ricordata dal Sussidiario). Eppure non è eccessivo richiamarla ancora se un grande storico francese come François Furet, nel pieno delle polemiche suscitate dalla pubblicazione dell’Arcipelago Gulag (la grande opera di Solženicyn che uscì a Parigi tra la fine del 1973 e il 1974, prima in russo e poi in francese), arrivò a dire che nella storia della cultura e della mentalità ci sarebbero stati ormai un prima e un dopo Solženicyn.
Richiamare questo anniversario, come farà una bella mostra presentata in questi giorni a Milano e accompagnata da un convegno anch’esso doppio (in Università Statale e in Cattolica), non è eccessivo perché davvero tante sono le cose che devono ancora essere dette e ribadite su questo autore, che fu grande non solo perché denunciò in maniera inoppugnabile i campi di concentramento sovietici (altri lo avevano fatto prima di lui) e perché mise perfettamente in luce la logica del sistema (anche qui, altri avevano già iniziato a farlo prima di lui e altri ancora lo avrebbero fatto dopo di lui); Solženicyn fu grande perché, mentre segnava comunque queste pietre miliari, aveva saputo trovare un nuovo sguardo sull’uomo e sulla sua possibilità di restare uomo anche nell’inferno dei campi. E proprio perché aveva saputo trovare uno sguardo simile, quella denuncia e quella logica erano apparse così chiaramente, tanto agli occhi degli esperti quanto a quelli della gente semplice.
Nel 1962, all’uscita di Una giornata di Ivan Denisovič, il primo racconto della giornata di un detenuto in un campo staliniano, uno sconosciuto lettore scrive al Kirovskij rabočij (L’operaio di Kirovsk, un altrettanto sconosciuto settimanale pubblicato in una cittadina della regione di Murmansk): “Ormai i commenti al racconto di Solženicyn superano come numero di pagine, il racconto stesso… I fortunati possessori del numero della rivista stilano le liste di quanti, amici e sconosciuti, desiderano leggerla”. E il grande studioso Sergej Averincev, ricordando quell’evento, commentava: “era successo qualcosa di nuovo non solo nella storia delle letteratura russa, ma nella storia della Russia in quanto tale: era la prima volta dopo cinquant’anni che le parole tornavano a corrispondere alle cose”. Era semplicemente rinata la realtà, così affascinante e sorprendente tanto per l’abitante di uno sperduto buco nell’estremo nord del paese, quanto per uno dei massimi rappresentanti della cultura russa dell’ultima metà del XX secolo.
Le cose tornavano a chiamarsi col loro nome; l’uomo appariva un infinito irriducibile ad ogni presa di qualsiasi potere terreno: “vedete di spiegare a chi di dovere, più in alto, che a un uomo al quale avete tolto tutto non potete più togliere nulla: è di nuovo libero”, dice uno dei detenuti di Solženicyn ad uno dei suoi aguzzini.
La libertà si era di nuovo mostrata, non come un arbitrio irresponsabile ma come una corrispondenza dell’uomo alla propria vocazione infinita, come la riscoperta e la rinascita della coscienza, là dove, come diceva Solženicyn, “non tutto più sono io”, così che ogni volta che l’uomo dice io rimanda a qualcosa di più profondo che lo costituisce.
E la verità riscoperta in questa libertà aveva smesso di essere uno strumento di potere per essere invece l’occasione di una vita nuova. Certo, c’era stata l’ideologia, che con la sua menzogna era stata il vero cuore del regime, l’origine e la giustificazione di crimini mai visti prima; e a questa menzogna Solženicyn aveva saputo contrapporre la realtà, la verità; ma il fascino di questa operazione consisteva appunto nel fatto che essa non creava così un nuovo muro di inimicizia, ma apriva uno spazio per l’incontro tra gli uomini, per la scoperta di un punto di purezza al fondo di ogni uomo: “immagine della perfezione”, “frammento dello Spirito universale”, “cuore”, “anima”, i personaggi di Solženicyn chiamano in mille modi diversi questo punto che resta intangibile al fondo di ogni uomo, quali che siano i suoi atti, e che fa sì che ciascuno possa guardare gli altri senza condannarli e rispettandoli anche nella loro diversità, anche se hanno opinioni diverse dalle nostre; cosa che è possibile solo se la verità non è un concetto astratto, ma una persona e dietro ogni opinione c’è innanzitutto una persona; “allora le ‘opinioni’ non sono più armi ma corrispondono a presenze: si distinguono diversi modi di accostarsi all’essere, poi, a poco a poco, si uniscono in una comunione”. La riscoperta di questo nuovo spazio di umanità è esattamente una di quelle cose che rendono ancora opportuno ricordare il grande scrittore.
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Il programma del convegno:
Università Statale di Milano, mercoledì 7 novembre 2018
Università Cattolica di Milano, giovedì 8 novembre 2018