Si ritorna a parlare, finalmente, di Romano Guardini, sacerdote e pensatore fra i più fecondi del Novecento, la cui immensa opera spazia dalla teologia, alla filosofia, alla liturgia, alla critica letteraria. Dopo un lungo periodo di relativo oblio, la sua opera viene riscoperta come precorritrice di tanti filoni del pensiero contemporaneo: devono molto alle intuizioni di Guardini figure quali von Balthasar, Giussani e gli ultimi pontefici, Benedetto XVI e Francesco. Nel 2017 la Chiesa ne ha avviato il processo di beatificazione. Se qualche merito va riconosciuto alle ricorrenze, occorre dire che tale riscoperta è anche il frutto del cinquantesimo anniversario della morte, avvenuta a Monaco di Baviera nell’ottobre del 1968.



Il rinnovato interesse per Guardini ha condotto alla realizzazione di una mostra su di lui, curata dall’Associazione Rivela e ospitata con grande successo nell’ultima edizione del Meeting di Rimini: alla manifestazione riminese è intervenuta una dei maggiori studiosi guardiniani, Hanna Barbara Gerl Falkovitz, a cui verrà assegnato in novembre il prestigioso premio internazionale per la Cultura Cattolica a Bassano del Grappa. A Guardini Massimo Borghesi ha dedicato recentemente un prezioso volume che approfondisce soprattutto il suo testo filosofico più importante, L’opposizione polare.



Romano Guardini nacque a Verona nel 1885, ma l’anno successivo la famiglia, per esigenze di lavoro del padre, si trasferì in Germania; lì Guardini trascorse tutta la vita, pur con lunghi periodi di residenza in Italia, specialmente a Isola Vicentina, dove gli eredi mantengono tuttora una villa e in cui è custodito un prezioso archivio di memorie del filosofo. Nonostante Guardini abbia aderito, fin da giovane, alla lingua e alla cultura tedesca (ottenne la cittadinanza nel 1911, recando qualche dispiacere ai genitori, e tutte le sue opere sono scritte in tedesco), non si può certo affermare che la sua scelta nasconda un’avversione per la sua patria d’origine: egli si considerò sempre cittadino europeo e fu un appassionato difensore dell’unità culturale del nostro continente.



Una traccia certa del suo legame con l’Italia è il suo amore per Dante, a cui riservò saggi e corsi universitari, raccolti poi nel volume intitolato semplicemente Dante, edito dalla Morcelliana. Significativamente, il libro è dedicato alla memoria del padre, da cui, fanciullo, colse i primi versi del poeta. Il libro si compone di saggi tematicamente diversi e potrebbe apparire a prima vista frammentario e, in taluni passaggi, ripetitivo, in quanto l’autore si trova costretto a riepilogare, a vantaggio dei suoi studenti-lettori, informazioni basilari per la comprensione della Divina Commedia. Eppure, trascorrendo dalla presenza degli angeli, al tema del paesaggio dell’eternità, al fenomeno della luce, fino al bellissimo capitolo sul corpo e la corporeità nella Commedia, riconosciamo le categorie fondamentali del pensiero di Guardini, dall’“incontro” all’“avvenimento”, dalla alla conoscenza affettiva, all’unità di cuore e ragione.

Inoltre, Guardini ambisce a delineare l’intero fondamento teologico e filosofico del poema dantesco, in grado di assicurare l’adeguata comprensione dell’opera e del suo autore. Per Guardini, Dante non è poeta nel senso moderno, “ma costruttore di un mondo. La sua vera volontà non mira ad esprimere un sentimento o a creare un’immagine, ma ad erigere un ordine nel quale mondo ed esistenza umana siano tali quali devono essere davanti a Dio”. Ripercorrendo le tappe che lo hanno avvicinato a Dante, Guardini menziona vari incontri: prima  quello con il padre, poi  con un professore, poi ancora con un’altra persona, non ulteriormente specificata, infine quello con il grande saggio di Auerbach, Dante poeta del mondo terreno. Il poema è innanzi tutto il racconto di una visione, ma occorre sottrarre a questa parola tutto ciò che sa di inconsistenza, di ombra, di sogno. Nella Commedia “non c’è nessuna ‘interiorità’ nel senso nostro, ma solo essenze e potenze. Vi manca quasi completamente quello che noi chiamiamo ‘esperienza religiosa interiore’: esistono solo fatti, decisioni, conseguenze, stati, essere. Perciò anche Dio non è l’oggetto di un’’esperienza interiore’, ma è Colui che è”. Ed in modo ancora più lapidario: “Dante non vuole offrire sensazioni o pensieri, ma realtà: la realtà dell’uomo e del mondo, e questa il più possibile chiara, caratteristica, intensa”.

Tale concezione deriva direttamente dall’Incarnazione, che “non è una necessità, ma un factum, un dato di fatto”. Anche nel più alto dei cieli, la dimensione corporea non è mai dimenticata, tanto che “la realtà fondamentale del poema dantesco non è lo spirito, ma l’uomo”. In queste pagine Guardini sviluppa una vera e propria teologia del corpo. Per Dante e per il suo tempo, il corpo non è né spregevole, né cattivo; l’uomo è considerato nella sua globalità, nella sua anima, intesa in senso cristiano, per cui essa “non è semplicemente presente nel corpo, ma vive in esso; il corpo non è solo abitacolo, o addirittura carcere dell’anima, ma si fa continuamente per virtù di essa”. Sulla scia di una fondamentale intuizione di Auerbach, viene respinta ogni forma di dualismo, e realtà e simbolo si fondono armonicamente.

Si veda in questo senso la rappresentazione di Beatrice: “essa non è un’allegoria, né del mondo celeste, né della grazia, oppure della teologia”, ma “la figlia di Folco Portinari”. La dissoluzione della figura storica della donna amata, frutto della mentalità razionalistica moderna, ha causato incalcolabili danni alla retta comprensione del pensiero dantesco. Dante porta in cielo le sue domande e la risposta “non viene dall’essenza infinita di Dio ma dall’esistenza di Cristo”, cioè dalla concreta realtà storica: Guardini arriva a dire che “il semplice rapporto diretto con Dio non è cristiano”.

Il mistero dell’Incarnazione si palesa al pellegrino Dante nell’Empireo, quando contempla, durante l’ultima visione, l’immagine dell’uomo nel cerchio divino:  “mi parve pinta de la nostra effige”.

Tutto questo si rivela nello splendore della bellezza, manifestazione della verità, secondo la filosofia medievale. L’immagine dantesca del mondo trova nella bellezza, così intesa, “la sua ultima parola”. Si tratta di pagine che von Balthasar ebbe molte care nella stesura di Gloria, la sua monumentale estetica teologica.

Basterebbero questi sintetici richiami a giustificare nelle nostre aule liceali e universitarie un ritorno all’esegesi dantesca di Romano Guardini.