La narrazione della storia di Mani pulite si riferisce ad una vicenda unica e forse irripetibile: l’azione giudiziaria e politica più vistosa compiuta dalla magistratura italiana all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo.

Il giornalista Andrea Purgatori l’ha ricostruita qualche giorno fa nel suo noto programma televisivo, “Atlantide”. E lo ha fatto assecondando la visione della storia d’Italia che emerge dalla vulgata giustizialista di Beppe Grillo.



Bisogna prenderla sul serio. Non perché abbia qualche merito storiografico (una dignità che cerca di dare ad essa l’editore romano Chiarelettere), ma perché è diventata forza di governo. E anche assai pericolosa. Ciò malgrado, Purgatori condivide il giudizio che la campagna giudiziaria di Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, guidati da Saverio Borrelli, sia stata tanto importante nei propositi iniziali quanto fallimentare negli esiti.



Purtroppo, malgrado queso stato d’animo, il cedimento all’apologetica, alla volontà prioritaria di assolvere i giudici da ogni grave errore, superfetazione, faziosità è rimasta dominante. Non poteva essere diversamente.

Purgatori ha scelto come ispiratore della sua ricostruzione un team rigorosamente di parte, cioè schierato. Da una parte coloro che, come i magistrati milanesi, sono stati protagonisti del tentativo (purtroppo non riuscito se non in minima parte) di mettere le manette o solo arginare il malaffare cresciuto nei rapporti tra politica ed affari; dall’altra giornalisti, come Gianni Barbacetto e altri fondatori o collaboratori del Fatto Quotidiano, alimentano sul terreno della saggistica e del giornalismo una storiografia fondata sul complottismo, cioè sull’esistenza di regie (dalle multinazionali ai cosiddetti “poteri forti” fino all’immarcescibile imperialismo statunitense) alle quali il nostro ceto politico e soprattutto di governo sarebbe prono.



Il punto da cui partire, che Purgatori accoglie parzialmente, è che la corruzione in Italia non è diminuita. Il che significa, secondo l’ammissione di un magistrato attento come Cantone, che non è stata individuata e messa alla prova nessuna tecnica legislativa e operativa per far declinare la diffusa coazione a commettere reati (negli appalti pubblici come nelle grandi attività imprenditoriali delle aziende di Stato e in quelle private). Insomma restiamo uno dei paesi più inquinati e vulnerabili dall’illegalità e dalla criminalità. Lo siamo anche se abbiamo avuto un eroe acclamato dalle folle come Antonio Di Pietro.

Resta un mistero (non svelato neanche in questa occasione) la ragione per cui dopo i suicidi di Gabriele Cagliari (presidente dell’Eni), di Raul Gardini (presidente della Montedison) e del parlamentare e dirigente socialista milanese Sergio Maroni, lo “sbirro” (come amava chiamarsi il solerte e aggressivo magistrato molisano) abbia deciso di appendere ad un chiodo la toga.

La trasmissione non nasconde che col suicidio dei due manager delle maggiori imprese pubbliche e private italiane, il ciclo ascendente dei magistrati milanese abbia ceduto il passo ad una fase diversa: quella dei dubbi, dei sospetti, fino agli attacchi veri e propri alla magistratura.

Li ha ripetuti perentoriamente nella trasmissione un avvocato non domato da Di Pietro come Giuliano Spazzali e un coraggioso, dignitosissimo, mediatore reo-confesso come Sergio Cusani. Se Purgatori avesse curato meglio la scorta bibliografica sulla quale basare il suo programma televisivo, si sarebbe reso conto che si è parlato e scritto di un vero e proprio colpo di Stato ad opera degli uffici giudiziari guidati dal pool milanese.

Da esso la politica è stata messa da parte e sostituita da un ciclone giudiziario che colpì un parlamentare su tre. Ministri anche della Giustizia (come il socialista Claudio Martelli e il democristiano Clelio Darida), uomini politici e dirigenti di imprese come Franco Nobili, Gabriele Cagliari, dirigenti della Fiat, della Montedison ecc. hanno dovuto rinunciare ai loro incarichi, finire in carcere o suicidarsi.

Ciò che nel programma di Purgatori non ha avuto lo spazio sufficiente (bastava omettere interviste inutili a parenti finiti bene) è stato l’accertamento della legalità o meno dei mezzi usati da Di Pietro, Colombo e Davigo. Per indurre migliaia di persone a confessare, auto-accusarsi o fare i nomi di altri imprenditori, uomini politici, amministratori coinvolgendoli in affari e vicende alle quali sono non di rado risultati estranei, ci si è serviti di uno strumento non solo improprio, ma illecito.

E non mi riferisco solo a indagini, intercettazioni telefoniche, avvisi di garanzia ad personam. Tutti andiamo con la memoria al codice penale dove viene rubricato come reato la carcerazione preventiva. Il nostro ordinamento giuridico vieta che durante le indagini, gli inquirenti possano brandire come un’arma minacciosa e accreditare l’esistenza di reati e lesioni da parte di testimoni, indagati e cittadini qualunque.

Con queste “armi” illegali migliaia di cittadini sono stati affidati alle patrie galere perché, sentendosi sotto schiaffo o solo offesi nella loro rettitudine, fossero indotti a millantare accuse e sospetti contro altre persone. 

Ma ai magistrati milanesi interessava assoggettare a un pubblico ludibrio le attività e gli affari di una banda criminale con alla testa Bettino Craxi. Muoia il “cinghialone” e tutti i filistei socialisti!
L’uso abusivo della carcerazione preventiva è stata ammessa e giustificata da Colombo, Davigo e Di Pietro nella stessa trasmissione e nei libri di testimonianze di cui essi sono stati autori.

Purtroppo chi è morto si è tolto la vita di fronte a un’amministrazione giudiziaria burocratica e insensibile alle mozioni dell’umanità e della giustizia, e il rigore della legge non ha potuto offrire una minima consolazione a compagni, parenti, amici. Sarebbe stato necessario vedere lette in pubblico le loro denunce e lamentele.

Il grido di dolore e l’accanimento subito dai Moroni, Cagliari, Darida, Nobili è dovuto ancora una volta restare fuori, essere neutralizzato.

Di fronte alla retorica su Mani pulite (di cui, è bene tenerlo sempre presente, non si discute il tentativo di rompere una parete scivolosa di rendite e coperture licenziose sui protagonisti del malaffare) nessuno ha osato intervistare un avvocato come Ferdinando Cionti, che ha avuto il coraggio, sulle pagine dell’Avanti! diretto da un uomo insospettabile e rigoroso come Ugo Intini, di muovere ai giudici milanesi l’accusa di avere cercato di creare una repubblica giudiziaria, cioè di preparare e un colpo di Stato (cfr. Il colpo di Stato, Libertates Libri, Milano 2017). Nessun uscio è stato aperto per sentire l’opinione di giornalisti come Tiziana Maiolo (che è stata anche una combattiva parlamentare) o uno scrittore accurato come Stefano Feltri.

Un’altra omissione, ancora più grave, è avere ignorato come era stata liquidata la proposta di legge per colpire immediatamente i responsabili del finanziamento illecito ai partiti, senza privare i giudici della facoltà di compiere altri approfondimenti ed emettere altre, e più gravi, sanzioni.

A presentarla fu il ministro della Giustizia Giovanni Conso, fu sostenuta anche dal premier Giuliano Amato e avallata dai presidenti dei due rami del parlamento e dallo stesso capo dello Stato.

Il silenzio su quella vicenda (che costringerà Amato alle dimissioni del suo governo) viene prolungato. Non ha ritenuto di dovergli dedicare una testimonianza Andrea Purgatori. A lui si è finora affiancato anche un suo collega, molto più indipendente, ma sicuramente anche molto più potente. L’ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli esercita sulla riscrittura della storia d’Italia nei canali televisivi e nella radio un potere che nessun giornalista né studioso ha mai avuto. Suona incomprensibile che nei sui programmi di rievocazione storica finora non abbia trovato spazio la riesumazione critica della sconfitta di un governo come quello presieduto dal costituzionalista e dirigente socialista Giuliano Amato. La breve vita del suo Esecutivo si svolse dentro una lama affilatissima. Da una parte lo spostamento della mafia sul terreno del terrorismo aperto (Amato ebbe il coraggio di mandare in Sicilia l’esercito per contrastare Riina e Provenzano); e dall’altra la forte ipoteca sulla politica (col conseguente indebolimento dello Stato) esercitata dai magistrati di Mani pulite.

Fino a quando la pigrizia mentale, l’ossessione per le polemiche che ne possono nascere, il timore di inimicarsi chi non c’è più come il Pci, impediranno di rilevare che ad uscire abbastanza indenne dalle indagini di Mani pulite è stato un solo partito? Quel partito dal Comintern al Cominform e fino alla caduta del muro di Berlino ha beneficiato, tra i partiti comunisti di tutto il mondo, del più grande finanziamento mensile erogato dal Pcus e consegnato ad un senatore livornese del Pci dagli agenti del Kgb nell’appartamento dell’ambasciatore sovietico a Roma.

Il Pci è stati anche una formidabile collettore di tangenti italiche. Da quelle dell’Ingic (Istituto nazionale gestione imposte di consumo, ndr) denunciate all’inizio degli anni Cinquanta da Luigi Cavallo a quelle confessate da Primo Greganti e inutilmente ricercate da Tiziana Parenti, con la collaborazione non straordinaria del vice-procuratore (e futuro senatore del Pd) Gerardo D’Ambrosio.

Come si fa a ignorare quanto è stato raccontato dallo stesso Di Pietro, cioè che una valigia con circa un miliardo di lire fu lasciata da Gardini (il padrone di Enimont) all’ingresso di Via delle Botteghe Oscure? Come mai né del segretario Achille Occhetto né di quello in pectore Massimo D’Alema (con i quali Gardini avrebbe dovuto conferire, recando con sé la preziosa ventiquattrore) fu ammessa l’interrogazione, come l’avv. Spazzali aveva chiesto, senza successo, al presidente del Tribunale dott. Tarantola? Come è possibile che un giornalista ignori l’allucinante vicenda per cui i corrotti furono lasciati in pace, mentre vennero indagati e condanna ti per corruzione Cusani, Gardini e Sama?

Su questo aspetto cruciale della storia del dopoguerra, dei rapporti tra politica, affari e magistratura la trasmissione di Purgatori ha offerto il fascino di un silenzio tombale. Magari a rimediare ci penserà Luciano Fontana, il direttore del Corriere della Sera, di cui Purgatori è stato, e credo sia ancora, collaboratore.