“[…] anche se le evidenze storiche e scientifiche sono contraddittorie, e la nostra conoscenza attuale della Sindone non è in grado di stabilire con certezza se si tratti del telo funerario di Gesù Cristo o di un’opera più o meno antica, è innegabile che quella immagine rinvia in maniera precisa alla Passione di Cristo così come narrata dai Vangeli […]. Indipendentemente dalla sua origine dunque essa rimane per la Chiesa un possibile strumento […] per accompagnare e aiutare la meditazione del fedele”. Così Gian Maria Zaccone, direttore del Centro internazionale di sindonologia di Torino, si è riferito alla Sindone lo scorso 7 novembre, in un’intervista apparsa su Vatican Insider e su La Stampa.
È questa un’affermazione che, da studiosa della Sindone, avevo sempre condiviso, ma forse non avevo mai compreso appieno. Fino a quando un semplice oggetto, una “cosa”, nell’accezione più banale del termine, mi ha condotta a una riflessione inaspettata e chiarificatrice.
Recentemente a Bologna uno scultore ha mostrato al pubblico la sua statua raffigurante l’Uomo della Sindone. Tra i vari oggetti che egli aveva recato per mostrare le proprie ipotesi sulla forma e le proporzioni di quel corpo, c’era anche un piede di gesso, trafitto da parte a parte da un chiodo di metallo.
Un semplice oggetto, un simulacro di qualcosa di banale in sé stesso. Il piede di un crocifisso, come tanti piedi di crocifissi vediamo ogni giorno nelle chiese di ogni città.
Ma c’era un’intensità in quella “cosa” di gesso, una forza, che derivava dalla cruda evidenza del fatto che quel piede ne riproduceva uno di carne — trafitto nella pelle e nei muscoli e nei tendini e nelle ossa da un chiodo di ferro —, e soprattutto dalla consapevolezza che quella ricostruzione rimandava a una parte del corpo di Cristo.
La nuda evidenza del chiodo mi ha ricordato, più di ogni sermone, più di ogni parola letta o ascoltata, che Gesù è morto in croce per tutti noi. È morto in croce anche per me.
Allora ho capito, per la prima volta in maniera vera e profonda, cosa vuol dire che la Sindone è uno strumento di meditazione della passione e morte di Gesù: la Sindone (al di là, al di sopra, indipendentemente dalla sua autenticità in senso scientifico) contiene in sé l’evidenza, potremmo quasi dire “nero su bianco”, di quello che duemila anni fa Gesù ha sofferto, per prendere sulle proprie spalle tutto il male che la nostra povertà umana aveva creato.
Per la prima volta, ho compreso realmente che ciò che udivo ogni domenica, quello che tante volte avevo letto e forse anche meditato, non mi bastava per rendermi conto nel profondo di cosa volesse dire che Gesù aveva affrontato per noi le terribili ore della Passione, e che questa verità, scritta a parole nel Vangelo, è scritta sul lino della Sindone.
Per la prima volta, ho compreso in maniera profonda e completa quanto il problema dell’autenticità della Sindone sia secondario; avevo sentito esprimere questo concetto, lo avevo accolto e fatto mio. Ma finché non ho visto quel piede trapassato, non l’avevo compreso appieno.
Perché ho compreso pienamente questo concetto in modo così profondo solo quella sera, e non prima, guardando la Sindone? Perché in fondo forse la Sindone l’ho sempre osservata con gli occhi di chi è curioso di risolvere un mistero, più che con quelli della devozione.
Quel chiodo era così crudele, nel trapassare il piede, che la prima reazione sarebbe stata quella di pensare che una tale sorte (non dico una crocifissione, ma un semplice piede inchiodato a un legno) non la si augurerebbe al peggiore dei criminali. Figuriamoci a un giusto. Figuriamoci a Dio.
Lo stesso vale per le tracce che la Sindone ci rivela: i segni di flagello; i rivoli di sangue causati dalla corona di spine; i fori lasciati dai chiodi; la ferita del costato. Sono segni visibili, quasi tangibili, di quanto narrato nei Vangeli. Per questo, il rimando a Gesù è inevitabile e immediato.
Di fronte a questo, tutte le dispute, le diatribe, i dibattiti perdono il loro valore fino a scomparire, per lasciare posto a un’unica consapevolezza: se guardo la Sindone, guardo Gesù. Non importa dimostrare se quel lenzuolo è realmente lo stesso che Giuseppe di Arimatea ha acquistato il venerdì, per avvolgervi il corpo del Maestro e deporlo nel sepolcro. Questo, lo determini la scienza (se mai la scienza saprà abbandonare i preconcetti in un senso e nell’altro che, quando si parla di questo oggetto, compaiono numerosi).
La fede, la devozione, non ne hanno bisogno, perché guardando quel corpo e quel volto, si avrà un immediato accesso al mistero della Passione. Un accesso di cui la povera umanità ha bisogno per cercare di capire, per avvicinarsi un pochino di più a quel mistero che è Dio, il quale dà la vita in croce per dei miserabili peccatori. E da quel giorno, da quando ho visto quel piede di gesso, mi capita spesso di pormi una domanda: se Dio ha fatto questo per noi, potrà mai non volere per noi un assoluto bene?