Le Lezioni d’immortalità (Mondadori, 2018) di Flaminia Cruciani, archeologa e scrittrice, membro della missione archeologica italiana a Ebla (Siria) per molti anni, sono uno dei casi letterari dell’autunno: un originale memoir che racconta non solo l’esperienza di anni di scavi, in particolare nel prezioso sito di Ebla, ma anche un viaggio nel tempo in cui protagonista è sempre l’uomo, con le sue aspirazioni e i suoi sogni. Oggi come venti secoli prima di Cristo.
Com’è nata la tua passione per l’archeologia?
È nata quando ero molto piccola. Ho la fortuna di avere una casa a Tarquinia, non lontano da Gravisca, l’antico porto etrusco di Tarquinia, che ospitò artisti e commercianti greci, esisteva già nel VI secolo a.C. ed ebbe anche una fase romana. La mia iniziazione all’archeologia avvenne lì. Quando avevo meno di dieci anni continuavo a tornare in quel luogo in bicicletta armata di cucchiaio da cucina, che utilizzavo per scavare e riportare a casa quelli che già chiamavo reperti. Come ho scritto: “Quasi ogni bambino alla domanda: Che cosa vuoi fare da grande? risponde: L’archeologo! Chissà a quanti di voi sarà capitato… poi qualcuno resta bambino e l’archeologo lo fa davvero”!
Cos’è stato per te scavare a Ebla?
È stata una stagione della vita indimenticabile, sia su un piano scientifico sia spirituale. Perché oltre ad aver imparato l’archeologia sul campo da un maestro come Paolo Matthiae, sono state fondamentali l’esperienza esistenziale e l’impresa umana vissuta nel remoto villaggio di Mardikh. Andare ogni anno lì significava trascorrere qualche mese fuori dal mondo, nel deserto, lontano da tutto. Adattarsi a ritmi di lavoro serrati in un posto dove non c’era nulla, a stretto contatto con la popolazione locale con abitudini di vita molto diverse dalle nostre. In questo villaggio del deserto settentrionale siriano c’erano solo le case, una moschea e nessun negozio. Mi rimane la sensazione di quello spazio sconfinato in cui vivevamo, di quel cielo che giocava a dadi con le stelle, ma soprattutto il calore della gente, i loro sguardi autentici, l’amicizia. Persone che ho amato di cui non so più nulla.
I ritrovamenti più importanti a Ebla?
Come ha affermato J. Gelb, uno dei maggiori assiriologi americani del Novecento: con Ebla gli italiani hanno scoperto una nuova lingua, una nuova cultura e una nuova storia. Questa scoperta è considerata il fiore all’occhiello dell’archeologia italiana, perché ha cambiato la storia. La Siria del III millennio, prima di questo ritrovamento, era generalmente considerata come un retroterra periferico e illetterato lontano dai grandi sviluppi della civiltà che si erano verificati in Bassa Mesopotamia e in Egitto. Questa scoperta ha rivoluzionato le conoscenze sulla Siria nel III millennio, mostrando come in questa fase fosse avvenuta una seconda urbanizzazione, in forme attardate di circa mille anni rispetto alla prima urbanizzazione della Bassa Mesopotamia. Nel 1975 la missione mise in luce gli archivi reali del Palazzo Reale G. Si trattava di circa 17mila frammenti di tavolette cuneiformi del Bronzo Antico 2350-2300 a.C., l’unico rinvenuto a Ebla, che ha rivelato una grande quantità di dati sulla storia, sull’economia, sulla religione, sulla società dell’epoca, non solo della città, ma di tutta la Siria del III millennio, svelando un intero orizzonte culturale di cui non si sapeva nulla. Questi testi mostrarono che Ebla allora era una città fiorente che intratteneva rapporti con le maggiori potenze dell’epoca, dall’Egitto all’Iran orientale, e stava tentando un’avventura proto-imperiale, ma ebbe la sfortuna di imbattersi nella potenza dell’impero di Akkad e del suo fondatore Sargon, che la conquistò e la distrusse.
Il momento più difficile negli scavi?
Uno dei momenti più duri fu quando setacciai per ore sotto il sole la terra contenuta in un magazzino, per isolare i resti organici e capire che cosa vi fosse stato immagazzinato. Da questo duro lavoro ricavai un piccolo sacchetto di semi, che dalle indagini paleobotaniche si rivelarono di orzo. Era sorprendente, perché quei semi ancora intatti avevano avuto il loro tempo di riproduzione vegetale più di quattromila anni prima. Ma al termine del lavoro mi venne la febbre a quaranta, a causa di un’insolazione, che durò giorni. I mesopotamici avrebbero detto che il demone femminile Lamashtu si era impossessato di me. Quel magazzino apparteneva a un cantiere che indagava una delle parti più antiche della città di Ebla, XXVI-XXV secolo a.C., eravamo all’inizio dell’urbanizzazione della città e solo questo sarebbe valso ben più che un’insolazione. Inoltre, poco entusiasmante fu la campagna in cui erano state fatte le prospezioni geofisiche, moderne tecniche d’indagine del sottosuolo. La restituzione grafica aveva evidenziato una grande macchia nera che secondo i tecnici avrebbe dovuto corrispondere alla presenza di consistenti tracce architettoniche. Ricordo l’entusiasmo di Matthiae, che decise di mettermi a scavare in quell’area. Le interpretazioni si rivelarono errate, infatti si trattava di un’immensa fossa, un’area di scarico di rifiuti, e io trascorsi circa due mesi a scavare un’infinita sequenza di strati di cenere ricchi di materiale organico di ogni tipo, senza nessuna struttura architettonica.
E uno dei momenti più felici?
Lo scavo di una sepoltura di un uomo del Bronzo Medio II. La cosa più toccante che ricordo di quel momento fu il dialogo che ebbi con quest’anima antica a cui spennellavo la testa. Pensavo che quella bocca avesse baciato e parlato, quelle mani di ossa, che assomigliavano a foglie di felce, avevano accarezzato e lavorato, forse avevano compiuto il male. Mi chiedevo se i suoi pensieri e le sue emozioni erano lì ferme in quella terra e io inconsapevolmente le stessi maneggiando, oppure dove fossero finite. Gli chiesi tacitamente di raccontarmi il viaggio che mi attende…
(Alessandro Rivali)