LETTURE/ Nono solo privacy: così i pc preparano la disoccupazione di massa

Il punto di partenza è sicuro. L’avanzare della quarta rivoluzione industriale avrà effetti rilevanti sul mondo del lavoro. E non basta affermare che le preoccupazioni sull’occupazione sono state una costante da duecento anni a questa parte di fronte all’avanzare delle innovazioni: prima le macchine e i telai, poi l’elettricità, l’informatica e da ultimo internet e la società della connessione. Ogni volta le preoccupazioni sono state, infatti, smentite dalla realtà. I nuovi sistemi di produzione hanno in ogni caso aumentato la produttività, sostituito le persone negli impieghi più pericolosi e ripetitivi, creato le condizioni per una crescita economica che ha migliorato il benessere e la qualità della vita.



Ma questa volta è diverso. La prima e la seconda rivoluzione industriale hanno spostato lavoratori dall’agricoltura all’industria; la terza ha accentuato il ruolo dei servizi. Ma la quarta, quella che stiamo vivendo in questo inizio di millennio, sembra destinata a ridurre drasticamente l’occupazione attraverso un uso sempre più intensivo di nuove procedure come l’intelligenza artificiale, l’internet delle cose, i big data e tutte le altre che hanno alla loro base le memorie sempre più grandi e la capacità di elaborazione dati sempre più raffinata.



Con il particolare, non di poco conto, che questa tempesta colpirà anche le professioni intellettuali e creative, creando le condizioni per un superamento, per esempio, dei tradizionali metodi di ricerca e insegnamento. Ci saranno lavori che saranno aboliti, ma in tutte le professioni l’impegno richiesto sarà non solo maggiore e diverso, ma soprattutto richiederà di unire in maniera significativa la capacità di adattamento e la forza della creatività. E’ significativo che le mille analisi condotte sull’argomento concordino sul fatto che solo due professioni saranno praticamente salvaguardate da questa rivoluzione: gli archeologi e i sacerdoti. Ma anche per questi gli strumenti digitali offriranno nuove prospettive.



Una delle più intriganti analisi sullo stato dell’arte dei rapporti tra innovazione e mondo del lavoro è quella realizzata da Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera dagli Stati Uniti (Homo premium, Laterza, 2018). In queste pagine si trovano i più interessanti bilanci delle ristrutturazioni tecnologiche insieme agli studi realizzati dai principali centri di ricerca e dalle università. Ne esce un quadro sostanzialmente problematico in cui sullo sfondo spicca la volontà di sfruttare le grandi opportunità della tecnologia, ma balza in primo piano il timore di essere disarmati di fronte a un’evoluzione sempre più rapida e invadente.

“Il rischio – scrive Gaggi – di una disoccupazione tecnologica di massa e di una sostanziale riduzione del reddito di chi svolge mansioni nelle quali compete con le macchine rappresentano la principale minaccia per la stabilità sociale, ma non sono l’unico problema che l’economia digitale e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale pongono alla politica. I governi già da anni sono alle prese con la progressiva demolizione del diritto di ogni individuo alla privacy e con una logica della rete che tende a erodere la tutela della proprietà intellettuale dei singoli, a partire dal diritto d’autore, considerato un ostacolo all’innovazione”.

Come dire: i problemi non vengono mai soli. E anche per questo richiederebbero che la politica non tanto li risolvesse con una bacchetta magica, ma per lo meno si interessasse per conoscerli e quindi cogliere le opportunità e ridurre i rischi. Perché, di fatto, l’attuale fase dell’innovazione è tale da portare, se lasciata a se stessa, una sempre maggiore concentrazione del potere e della ricchezza, insieme alla difficoltà di difendere gli attuali livelli occupazionali, peraltro in molti casi già problematici. Ma la politica sembra parlare d’altro. Non solo in Italia. E questo non consola, ma aggiunge un’ulteriore preoccupazione.