Il Pasolini che preferisco non è il regista o il romanziere, ma è il moralizzatore di Vie nuove, il sociologo, l’antropologo, l’analista attento dei mutamenti che dagli anni 50 sino alla sua morte hanno contraddistinto una stagione nuova e mai più rivissuta di crescita del mondo occidentale.

Lo preferisco perché a differenza della sua produzione letteraria e poetica, ma non in quella cinematografica dove invece questi temi sono molto presenti, nel Pasolini saggista e giornalista c’è davvero un linguaggio e uno sguardo inediti e fortemente lungimiranti che illuminano la grande forza del suo pensiero di cui siamo profondamente eredi.



Il Pasolini protagonista del mutamento dettato dall’adesione ai meccanismi di consumo, analizza questa grande trasformazione quasi da esterno, come se ci scrivesse 20 o 30 anni dopo i fatti. Ciò che contraddistingue la sua forza è la mancata seduzione esercitata dalle lusinghe del progresso sugli intellettuali a lui coevi come Arbasino, con cui sono noti gli scambi di opinione.



In questo Pasolini è molto vicino al Leopardi de Le operette morali, anticipatore di Nietzsche, perché il progresso può anche segnare la decadenza dell’Occidente, non necessariamente il suo proliferare.

Anzi, nel boom economico cominciano a venire meno le strutture di sostegno della nostra società, in primis il sacro e poi la religione, ma anche la lingua, che passa dal mondo dialettale a quello italiano, i riferimenti culturali che, grazie alla televisione, diventano uniformi e si cristallizzano in una tensione tutta piccolo-borghese sempre più omologata e statica, al cui centro vive la logica del capitalismo.



Capitalismo qui inteso come macchina à la Deleuze e Guattari, ossia un meccanismo che prima dell’economia pervade e struttura le coscienze, cambia il pensiero e l’azione e spinge l’uomo a un diverso rapporto con la realtà.

Pasolini allora rifugge il mondo del progresso. Il mondo industriale, per esempio, che non gli interesserà mai analizzare. Gli operai di Milano e di Torino sono già perduti, ma non ancora il Franco Citti di Accattone, che invece è fiero di essere un accattone, è fiero della sua sottocultura. Ma anche questo idillio durerà poco e sfuggirà tra le dita di Pasolini come sabbia, mentre forze contrarie avanzano.  Sarà allora la volta di abbandonare Roma per il Terzo Mondo, per lo Yemen, l’India… Lo scarto culturale è però troppo grande e dunque non resta che la disperazione.

Credo che il grande insegnamento di Pasolini nel rapporto con il boom economico risieda nell’aver chiarito con analisi empirica e collerica che la violenza del progresso tocca l’umanità in modi sempre diversi e con meccanismi sempre nuovi, e quindi nel farci riflettere oggi sul fatto che questo grande cambiamento antropologico non si è mai interrotto e continua in maniera inarrestabile a incidere lentamente e inesorabilmente sulla nostra umanità.

Rispetto al boom economico, oggi il mutamento antropologico riguarda per esempio l’incisività dei processi di velocizzazione delle informazioni che l’Ict pone sul nostro pensiero e sulla nostra azione.

Mi chiedo, per esempio, come ha cambiato Trip Advisor il modo di lavorare del ristoratore. A che pensiero lo obbliga oggi? Come il giornalismo online, che prevede una lettura per ogni articolo di due minuti al massimo, ha cambiato il modo di scrivere e di leggere? Come Facebook ha cambiato il modo di vedere le persone che conosciamo o non conosciamo? Come è possibile che un solo post possa farci cambiare idea su amici storici e incidere dunque sul nostro rapporto con loro?

Per chi come me ha avuto il privilegio di formare le giovani generazioni, è palpabile di anno in anno che un millennial non ha certo la mia forma mentis, e che forse non ambisce neppure ad averla.

In questa analisi ci aiutano molto le neuroscienze, ma ci vorrebbe qualcosa di più, ci vorrebbe la penna di Pasolini per scandagliare l’oggi, ossia una raffinatezza del pensiero che colga le sfumature più intime di questi recenti cambiamenti senza visioni edulcorate né tecnicismi, ma con una capacità olistica di intendere il presente, perché la storia è fatta di lacrime e sangue e nessun cambiamento ne è esente.