Rullo vigoroso di timpani. Fiati e archi che rispondono in tono solennemente maestoso. Poi le trombe che dispiegano il loro suono di marcia trionfale: l’avvio dell’Oratorio di Natale ci trascina dal primo istante, con impeto pieno di gioia, nel flusso di ciò che ci aiuta a rivivere. La letizia serena si espande nella celebrazione della gloria di Dio rivelata nel segno del Bambino che nasce. La gioia si fa preghiera, contemplazione stupefatta: umile riconoscenza adorante davanti alla grandezza della bontà dell’Altissimo che discende dal cielo in soccorso degli uomini sofferenti.
Il registro decisamente spostato sul positivo domina anche la trama poetica dei testi cantati dalle voci soliste e dai cori. Con perfetta simmetria, il timbro musicale prevalente si riflette nella costruzione del teatro di parole messe liturgicamente in scena da Bach, come portano in piena evidenza già le prime battute del canto corale innestato sulle note festose del felicissimo esordio strumentale: “Gioite, esultate! Glorificate i giorni,/ esaltate quanto l’Altissimo ha oggi compiuto!/ Deponete il timore, bandite i lamenti,/ innalzate un canto ricco di gioia e allegria!/ Servite l’Altissimo con nobili cori,/ lasciate che onoriamo il nome del Signore!”.
Che si tratti di proclamazione gioiosa di una Buona Notizia, in questo caso incentrata sul miracolo dell’incarnazione del Salvatore figlio di Dio, lo documentano non solo l’atmosfera mentale che l’Oratorio ricrea, ma la stessa origine di diversi suoi brani, ripresi da arie e cori di altre composizioni precedenti di Bach. Lo si rileva per lo stesso brano inaugurale della prima cantata, che deriva direttamente dalla cantata profana BWV 214, eseguita un anno prima dell’allestimento dell’Oratorio di Natale in occasione del compleanno della principessa ereditaria del ducato di Sassonia, Maria Josepha. La celebrazione dei grandi della terra si prestava a essere accostata come l’eco approssimativa dello splendore di lodi, fatto di musiche, voci e parole, combinabili in una nuova veste per dare la massima enfasi possibile all’esaltazione del ben più illustre Dominatore della storia di ogni tempo e del mondo intero.
La densità oggettiva del senso del sacro a cui la musica di Bach dà fisica espressione è tutta impastata nella trama di questa mescolanza tra l’iniziativa mirabile della grazia che agisce e trasforma e la realtà umana che l’accoglie, investita da una forza che si rovescia a cascata. Non c’era frattura tra terra e cielo nel cosmo imperiale sotto il dominio degli Asburgo in cui Bach ideò le sue opere sublimi. Si trovava a vivere nella luterana Lipsia quando eseguì per la prima volta il suo Oratorio, concepito per le feste del ciclo natalizio tra la fine del 1734 e i primi giorni di gennaio del 1735. La cornice era quella di una serie organica di sei cantate che, sulla traccia dei vangeli dell’infanzia di Gesù, Luca e Matteo, fedelmente riproposti negli inserti dei recitativi, ripercorrono l’intero arco dell’“avvenimento accaduto” nel cuore della terra di Giudea (“die Geschichte”, cioè il fatto storico, reale, “die da geschehen ist”): dall’arrivo di Maria e Giuseppe a Betlemme passando per il prodigioso parto verginale, l’annuncio ai pastori e la loro visita, la circoncisione, fino ad approdare all’adorazione dei Magi, in coincidenza con la festa conclusiva dell’Epifania.
Vedendo snodarsi i diversi momenti della rievocazione del Natale di Cristo, ieri come oggi chi ascolta è chiamato a immergersi nel frutto della compassione di Dio per il destino dell’uomo. L’attrattiva luminosa della sua misericordia reca conforto e consolazione. Il Bambino che prende dimora in una povera mangiatoia è lo scudo dietro il quale raccogliersi per respingere le insidie del più subdolo nemico: basta che il cuore di chi non si accontenta di essere timido spettatore si affidi con tutto lo slancio della sua disponibilità al dono che gli viene rimesso di fronte nella sua spoglia semplicità.
Per questo la musica e i testi delle cantate, intrecciandosi a vicenda, sollecitano l’intelligenza e gli affetti: provocano a una risposta, chiamano a immedesimarsi nella catena dei fatti riattualizzati in quello che in origine non poteva essere altro che lo spazio della memoria ecclesiale, ridestata per essere vissuta comunitariamente. Per questo stesso motivo, il calore contagioso della luce e della gioia si spinge fino a muovere le leve della più coinvolgente tenerezza sensibile. Gesù Bambino diventa il piccolo da cullare fra le proprie braccia, il “miracolo Benedetto” da ospitare nel cuore ardente di vero amore. La poesia devota messa in musica da Bach qui si distende nella dolce armonia di un canto commosso rivolto all’oggetto di una ammirazione infinita: “O mio carissimo piccolo Gesù!/ Crea per te stesso una piccola culla, morbida e linda,/ per riposare nel più profondo del mio cuore…” (I, 9); “Andate dunque, o pastori, andate,/ a contemplare il miracolo…/ Cantate così presso la sua culla/ in dolce voce,/ e tutti insieme,/ la ninna nanna per il suo riposo!” (II, 18).
Ma trapassando l’investimento emotivo di radice materna si nota che la linea poetico-musicale dell’Oratorio torna continuamente a sollevarsi, per accendersi a più riprese nella forma espressiva di un intenso registro nuziale. La tendenza all’innalzamento di tono si coglie fin dalla prima cantata, dove il tema natalizio subito si dilata calandosi nella logica duale del Cantico dei cantici. Il Bambino divino è anche, allo stesso tempo, lo sposo agognato, l’innamorato da stringere in un abbraccio che assorbe in sé tutta l’energia dell’io, colmo di desiderio: “Ecco sta per venire al mondo il mio carissimo sposo promesso,/ l’eroe della stirpe di Davide…” (I, 3); “Preparati o Sion…/ a veder presto presso di te l’Essere più bello e più caro!/ Le tue guance / devono oggi sembrare ancora più belle,/ affrettati ad amare con grande ardore il tuo sposo!” (I, 4); “Mio Gesù ha nome la mia gioia,/ mio Gesù ristora il mio cuore e la mia vita./ Gesù, dolcezza della mia vita,/ vieni! Io voglio abbracciarti con gioia,/ mai il mio cuore ti lascerà,/ sposo promesso dell’anima mia,/ ah! Prendimi con te!” (IV, 38); “Andate, orsù! Il mio tesoro non s’allontana da qui,/ rimane presso di me,/ io non lascerò che mi abbandoni./ Il suo braccio mi avvolgerà d’amore/ con dolcissimo slancio/ e la più grande tenerezza;/ resterà per me lo sposo promesso,/ io voglio affidargli il mio petto e il mio cuore” (VI, 61).
Davanti allo spettacolo del presepe, il fatto decisivo che si compie è il rinsaldarsi affettuoso di un legame indistruttibile, che sfida le ombre più negative della vita. Solo l’appoggiarsi a Lui vince il ghigno cupo del peccato che conduce alla morte dell’anima e alla infelicità eterna: “Tu, Gesù, sei e rimani il mio amico;/ e qualora nell’angoscia io dovessi implorarti:/ o Signore, aiutami! Non rifiutarmi il tuo soccorso” (IV, 61). Amore, affetto, amicizia sono i volti molteplici di un Dio reso vicino, che ci accompagna senza sosta lungo il cammino.