“Non si muore senza aver avuto il tempo di sapere che si sta per morire”. Così scrive Philippe Ariès nella sua intramontabile Storia della morte in Occidente. L’opera vede la luce a metà degli anni Settanta e costituisce una pietra miliare di quella storiografia tanto cara alle Annales che sonda i comportamenti umani come motore della storia e le mentalità come elemento centrale degli accadimenti e delle loro conseguenze. Una rilettura contemporanea del grande capolavoro di Ariès offre occasioni di riflessione su una questione cruciale, come la morte, che è questione culturale, antropologica e ovviamente, anche in perfetta relazione con una visione cristiana della vita presente e futura.



Il tema del morire, prima ancora che il tema della morte in sé, è infatti decisivo nella trasformazione culturale e antropologica che segna il passaggio dell’uomo da un mondo cosiddetto antico al mondo cosiddetto moderno.  “Nello specchio della propria morte – scrive Ariès – ogni uomo riscopriva il segreto della sua individualità” e perfino della sua identità. In definitiva “la morte significa riconoscimento, da parte di ognuno, di un Destino in cui la propria personalità non è annientata, certo, ma addormentata”. Era insomma quello che il Requiem sintetizzava non solo come epitaffio scontato, ma come rappresentazione semantica di uno status effettivo, condiviso e universale.



Sul morire si è giocata una battaglia radicale che segna la misura della differenza non solo tra un mondo religiosamente orientato ed uno pienamente secolarizzato, ma anche tra un’umanità integrale ed un’umanità isterica, in cui l’idea della rottura si è insinuata nell’esperienza umana come segno distintivo di un fallimento.

Così, se la morte ha sempre generato un ordine del discorso, per dirla con un’opera fondamentale di Michel Foucault, forse il più grande studioso del passaggio critico da un mondo antico ad uno moderno che il Novecento abbia conosciuto, discorso che si era strutturato in un vero e proprio cerimoniale che dava al momento del passaggio estremo il sommo valore della solennità, oggi, in una società allergica ad ogni discorso pertinente e tanto meno ad ogni forma di cerimonia che suggella i transiti esistenziali elevando l’informale a categoria assoluta, il tema della morte si è decisamente indebolito. Si è attestato, al più, sulla mera dimensione emotiva cui sottostà una visione morbosa dell’esistenza.



La questione ha investito la Chiesa stessa, la più grande società di discorso e la vera detentrice di un discorso pertinente alla morte e al suo esito ultimo, la Resurrezione.

L’anemia che contraddistingue la religione e la filosofia, anemia che si ripercuote inevitabilmente sulla poesia, ha reso il discorso del vivere e del morire vago. Ed è in tale vaghezza che l’uomo contemporaneo ritiene di trovare una sorta di felicità semantica. Parole deboli possono essere piegate a piacere alle proprie esigenze di sicurezza. Così un discorso vago è innanzitutto un discorso rassicurante.

Troppo spesso anche l’omiletica funeraria cede il passo a tale visione onirica ed emotiva, con raffigurazioni blande e caricaturali del Paradiso (e mai dell’Inferno e men che meno del Purgatorio) in cui i morti trovano il loro compimento, prima ancora che spirituale, professionale. Così il musicista, il giornalista, l’idraulico e via dicendo, saranno pienamente a disposizione degli angeli con la loro professionalità.

Ad un discorso debole si associa un modo nuovo di gestione della corporeità morta. Se nella società pienamente cristianizzata che sgorga dal Medioevo “la solennità della morte nel proprio letto” ha assunto “un carattere drammatico” perché “degli esseri  soprannaturali hanno invaso la camera e si affollano al capezzale del giacente” ingaggiando “una lotta cosmica fra potenze del bene e del male che si disputano il possesso del moribondo e il moribondo stesso assiste al combattimento come un estraneo per quanto rappresenti la posta in gioco” e addirittura “Dio e la sua corte sono là per constatare come si comporterà il morente durante l’ultima prova” sottoposta “ad un’ultima tentazione”, la tentazione della “disperazione” o della “vanagloria”, l’ospedalizzazione moderna della morte e il suo allontanamento dalla casa tentano di depotenziare ogni carattere tragico dell’evento.

Si tratta di un’ulteriore eterotopia, per dirla ancora con Foucault, di un’espulsione della morte dall’orizzonte presuntuosamente euforico dell’esistenza. Il morto viene così collocato nello spazio neutro delle case del commiato, che hanno orari da centro commerciale, servizi palliativi del dolore, dal caffè al ristorante. L’orizzonte dell’eterno presente in cui siamo collocati nella nostra esistenza senza età, senza ingressi e senza uscite nelle fasi di passaggio di un’esistenza che vorremmo fosse lineare e levigata, è apparentemente salvo. Finché non toccherà a noi.