Uno spettro è tornato ad aggirarsi per l’Europa. Si riveste del sinistro profilo della paura, camuffandosi con mille facce diverse. Si infiltra nei dibattiti della pubblica opinione. Si insinua nei salotti, nei circoli di riunione, e naturalmente anche nelle redazioni dei mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi. Da qui il suo spirito minaccioso e polemico alimenta il risentimento diffuso per le tante cose che vanno storte: il male del vivere ha sempre bisogno di nemici contro cui accanirsi. Vuole il capro espiatorio da sacrificare per poter sperare di risorgere attraverso scorciatoie facilitate.
Della paura, e dei modi per sfuggire alla sua presa, si è parlato molto anche su questo giornale, in particolare nella scia della coraggiosa intervista di don Julián Carrón apparsa sul Corriere della Sera il 10 gennaio scorso. Ma andando a ritroso, si può ricordare che sulla delusione e sul senso di disagio suscitati per le novità problematiche provocate dallo sviluppo dell’Occidente moderno si è fondato uno dei successi editoriali più rilevanti della pubblicistica religiosa degli ultimi tempi: vale a dire quella Opzione Benedetto di Rod Dreher (“una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano”), che proprio nel 2018 è stata tradotta anche in lingua italiana, suscitando vasto interesse nel mondo della cultura attenta alle provocazioni di una fede incarnata nella realtà di oggi.
Estremizzando in senso separatista la scelta comunitaria dell’antico legislatore del monachesimo latino, Dreher propone di combattere le contaminazioni della modernità secolarizzata costruendo il corpo alternativo di una identità cristiana che, invece di gettarsi nell’arena pubblica della polis, si edifica concentrandosi sulla sua forza autonoma, facendo leva sulla sua irriducibile diversità per attirare a sé le élites di un nuovo cristianesimo purificato.
Le prese di distanza nei confronti di questa ipotesi isolazionista sono state numerose, provenendo da tanti settori diversi dello “schieramento” cattolico dei nostri tempi: da Giovanni Maria Vian, ora direttore emerito dell’Osservatore Romano, giusto per fornire qualche nome esemplificativo, a monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia e Guastalla (Il Foglio, 15 settembre 2018). Ed è certamente notevole che proprio al compito di andare “oltre la paura” Camisasca abbia pensato di dedicare il suo, recentissimo, ultimo libro, che incorpora lo scambio epistolare con un giornalista, Mattia Ferraresi, attento alle novità innestate nel ventre dell’Occidente muovendo dalle sue roccaforti nordamericane (Oltre la paura. Lettere sul nostro presente inquieto, Lindau 2018).
La paura, dunque, è tornata di grande attualità. Ed è giusto guardarla in faccia, cercare di snidarla per liberarsi dai suoi tranelli insidiosi. Però è anche vero che forse esiste un modo riduttivo di intenderla, che rischia di generare a sua volta equivoci e confusione. Questo avviene quando dalla più che salutare denuncia della paura che paralizza e spinge a innalzare muri di protezione anti-contagio si scivola verso l’interpretazione di ogni voce critica nei confronti dell’assetto del nostro sistema del vivere collettivo in termini di patologica avversione ai costi imposti dalla condivisione di un destino comune. Interrogarsi sul peso assunto da obblighi e legami reciproci, contestare il modo in cui essi sono fatti valere in un dato momento, non può essere sempre e soltanto sintomo di incapacità di stare dentro le circostanze fissate dal presente che evolve verso un futuro predeterminato, immodificabile. Le “circostanze” non sono una gabbia assolutamente costrittiva, senza vie di uscita. E l’esercizio della critica, la progettazione di soluzioni diverse, che possono anche entrare in conflitto con uno status quo più o meno cristallizzato, sono un esercizio irrinunciabile di libertà creativa.
In altre parole: criticare, spingere con i mezzi di cui si dispone verso la correzione di quelle che sembrano anomalie e contraddizioni ingiuste, penalizzanti, magari superate, non può essere valutato in modo automatico come l’espressione di uno spirito “reazionario”. Tutt’altro: l’apertura al cambiamento è dimensione costitutiva di una sensibilità civile amante del bene comune di una umanità in cammino. Le strutture istituzionali, gli ordinamenti stabiliti, i codici di comportamento in vigore, tendono per forza di cose a irrigidirsi, si sclerotizzano e perdono di vista gli scopi che hanno dato loro vita e di cui sono a servizio. Tutto invecchia. Tutto si può incancrenire. E tutto si può riformare, rivedere, riorganizzare, anche in termini profondi, radicali.
A tale principio non sfugge, ovviamente, l’anima politica del presente in cui siamo immersi. L’ordinamento esistente non può pretendere per sé il marchio di una indiscutibile razionalità globale, intrinseca e autolegittimata: sarebbe come tornare a un appiattimento apologetico sullo schema di un mondo blindato nella sua ossatura portante, a una sorta di consacrazione a priori dell’esito provvisorio raggiunto dalla catena di trasformazioni che hanno plasmato la fisionomia di ciò che noi siamo diventati. Accettare di stare dentro questa cornice come orizzonte della nostra esistenza è cosa ben diversa dall’identificarsi con le forme in cui si sono tradotte la politica, la società e la cultura di cui facciamo ogni giorno esperienza: su queste si può, si deve discernere ed elaborare.
Mi sembra inadeguata ogni possibile equiparazione tra il giusto rifiuto della paura del nuovo e il revanscismo minaccioso dello spirito regressivo che soffia in controtendenza rispetto ai condizionamenti più pesanti e oggettivi di una realtà platealmente segnata anche dalle ombre del negativo, dall’immobilismo dell’inerzia ripetitiva, dalla sorda chiusura alla possibilità di lasciarsi mettere in crisi per aprire la strada a nuove configurazioni del vivere personale e associato. Fare onestamente i conti con il negativo che avanza non significa rimanere prigionieri della nostalgia per un bene messo in pericolo o già dilapidato, da riguadagnare tornando alle sicurezze utopiche di un passato travolto dalla storia che passa e non si può certo fermare, chiusi nel piccolo cerchio del proprio egoismo ristretto.
Il problema di fondo è l’ottica in cui ci si colloca proprio per leggere in modo adeguato le dinamiche dei percorsi storici che hanno portato all’esito attuale. L’opzione decisiva è la scelta tra il “giustificazionismo” di chi interpreta la storia come un processo lineare e ultimamente obbligante, che asseconda idealisticamente una sorta di disegno intelligente, spingendo verso approdi da cui non si può più tornare indietro, e chi invece accetta di misurarsi con tutto il realismo con cui la storia della società, del pensiero e delle istituzioni politiche hanno insegnato a guardare all’emersione dello Stato moderno e alla rivoluzione del sistema del vivere che a questo si è intrecciata in modo inesorabile. La prospettiva del pieno realismo storico consente di vedere dietro le “maschere” dell’ordine politico e legislativo razionalizzato la forza magmatica degli interessi e delle passioni degli uomini che l’hanno forgiato. Il governo della società umana rimane sempre un sistema imperfetto (e perciò riformabile) di contenimento delle spinte contrapposte, in nome di un equilibrio che si edifica anche sulla base delle logiche di potenza, della manipolazione ideologica delle maggioranze, della violenza minacciata e spesso anche esercitata, non solo sui campi di battaglia.
Non c’è bisogno di preferire per forza Carl Schmitt a Hegel e alla teologia politica dell’assolutismo per riconoscere questa base fortemente “terrestre” e sanguigna che irrora le fibre più nascoste della convivenza organizzata degli uomini. Il realismo consente di guardare al mondo umano come il prodotto di una storia che è il frutto delle libertà e delle volontà che interagiscono sulla sua scena precaria. Incoraggia lo spirito critico e insegna a tenere distinti i disegni della Provvidenza da quelli dei detentori delle leve del potere e della ricchezza.
Conviene essere “agostiniani” fino in fondo. Se due sono le “città” in dialettica tra di loro, bisogna evitare il cortocircuito di rimescolarne le leggi interne e le funzioni. L’armonia ideale e lo spirito unanimista dell’ordine superiore non possono competere all’impalcatura delle strutture inferiori. Nell’ambito delle istituzioni umane, non si può che procedere per approssimazioni, tentativi e compromessi. Si media, e poi si si può anche cambiare rotta. È abolita, o dovrebbe essere abolita in partenza, ogni pretesa di sacralità autoritaria. E lo spirito di obbedienza leale, il senso di appartenenza a una comunità di popolo, per mantenersi autentici, per non degenerare in cieca soggezione passiva, impongono che i sogni e le speranze, più sono alti e impegnativi, più abbiano la necessità di essere sottoposti a verifiche e aggiustamenti continui: è la condizione per poter resistere senza ridursi a scheletri pietrificati.