La costruzione di “città nuove” come la gestione di quelle “vecchie” (o in pianta stabile che dir si voglia) con una disciplina e un approccio culturale volte alla modernizzazione non risolve l’ambiguità che ha avuto Mussolini sulla questione urbanistica. Mi riferisco alla sua incertezza nell’optare o meno per l’anti-urbanesimo o addirittura per  una soluzione apertamente “ruralista”. Mi pare, tuttavia, evidente come l’urbanizzazione e l’urbanesimo facciano parte delle innovazioni (o delle resistenze opposte ad esse) in cui la modernizzazione si è manifestata. 



Conta anche l’antropologia fascista. Essa privilegiò una concezione dell’“uomo nuovo” da costruire molto più simile al “rurale” che al “borghese ideale”. Mussolini riecheggiava così la vecchia cultura anti-borghese sia illuminista e rousseauiana sia socialista, che arriva fino ad Ugo Spirito (ma non aveva contagiato l’area socialista).



Verso l’idealtipo borghese pendono, invece, com’è noto, le intenzioni dei nazisti. Pensano, Hitler compreso, che “il tipo del nuovo tedesco non era l’uomo delle foreste teutoniche, non era Arminio il Germano”. Amano proclamare, con uno scrupolo perfido, la necessità di tornare a “tutte quelle virtù borghesi che l’epoca moderna stringeva d’assedio: lavoro onesto, lindura, lealtà, un aspetto decoroso”, cioè i valori tradizionali. Il loro ripristino passava per la distruzione del ceto sociale che, essendo corrotto, ai loro occhi le negava o le ostacolava, cioè la borghesia di origine ebraica.



Il tema dell’urbanesimo è tornato di attualità (mi riferisco all’infittirsi delle pubblicazioni sul fascismo nelle città: da Livorno a Mantova, da Saronno a Savigliano, da Terni a Trieste, ecc.) in particolare coi recenti lavori di M. Dau e Danilo Breschi (Mussolini e la città. Il fascismo tra antiurbanesimo e modernità, Luni 2018) che fanno seguito a quello su una città-simbolo del fascismo, la Forlì di Andrea Guiso.

Una contraddizione balza subito agli occhi. Da una parte il fascismo ha un’ideologia anti-urbana, volta al contenimento politico (per paura di un incremento delle azioni sovversive) delle migrazioni, ma dall’altra c’è il dato di fatto (richiamato da Anna Treves e ora riproposto da Breschi) per cui “il fenomeno delle migrazioni interne e della crescita dei principali centri urbani abbia luogo proprio durante il Ventennio in  misura consistente”.

La moderna città industriale, i rapporti con la campagna, è vissuta dal fascismo come un’antitesi, come una faccia bifronte, “una volta nostalgicamente al passato, e un’altra prometeicamente protesa verso il futuro, nell’impossibile e pericolosissimo sogno di riuscire a fondere in un tutto organico, in una realtà omogenea e vitale, l’una e l’altra faccia”.

Questo giudizio di Settembrini convive con gli esiti degli approcci di chi ha condiviso l’idea di ambiguità come il tratto caratterizzante della modernità fascista. Dopo P. Capuzzo, M. Berman ed E. Galli della Loggia la recente rivisitazione del tema da parte di Danilo Breschi  attraverso un’ampia e sempre accurata documentazione sulla pubblicistica politica e con alcune scelte legislative del settore, l’ha riproposta come tuttora valida.

Nel primo dopoguerra la crisi dei regimi democratici investe la stessa idea di modernità delle società industriali europee. A esserne vittima è un emblema macroscospico di essa (non solo per i simboli) come la città, diventata metropoli e cosmopoli.

Al centro non c’è più la terra come punto di partenza, ma sempre di più il denaro. Assurge a misura assoluta della convivenza urbana e delle stesse relazioni interpersonali. Si esprime nei timori e tremori  che esse sintetizzano di fronte all’addensamento in uno spazio sempre più ristretto, quindi la paura del numero, il sacrificio dei valori professionali (la qualità, il merito) rispetto alla quantità. Non ci furono riserve a identificare nel denaro il tarlo che stava dilagando e minando pericolosamente, con forme palesi di decadenza e di degenerazione (rese di enorme risonanza dallo straordinario successo editoriale del saggio di Spengler Il tramonto dell’Occidente) la democrazia. Dunque è il regime politico delle masse a  finire sotto i colpi di maglio della critica  degli intellettuali.

“La grande guerra e la crisi hanno distrutto il mondo della sicurezza -riepiloga Paolo Rossi -. I temi presenti in Spengler ritornano, quasi ossessivamente, nella cultura del Novecento: la servitù dell’uomo contemporaneo, la dissacrazione della persona, la responsabilità delle macchine, la violazione empia dell’intatta natura. Ciò che è moderno non coincide più con ciò che è umano”.

L’anti-urbanesimo guidato dai fascisti nacque in questo contesto. Il ritorno alla terra e la politica governativa (lanciata nel 1929) di “sbracciantizzazione” viene invocato come una scelta capace di  infondere sicurezza. In questa esortazione si distinse un liberale-conservatore (se non proprio reazionario) come il viticultore e sotto-segretario al ministero dell’agricoltura e foreste Arturo Marescalchi. In nome della stabilizzazione sociale delle campagne fu perseguito l’obiettivo di far lievitare il numero di mezzadri, compartecipanti e coloni parziari.

Soddisfare l’antica e irrevocabile domanda della proprietà del “pezzo di terra e della casetta” significava saper fare grandi e piccole rinunce. Si va dalle lusinghe del viaggiare sui tram, coltivare un impiego diversificato del tempo libero, fare camminate igieniche (cioè “tutti divertimenti più a portata”) ai “nuovi comodi”. Erano le “maggiori pigioni che paghi per abitare un quarto piano, in piccole stanze dove i tuoi figli cercano invano lo spazio per correre, e l’erba, le piante per giocare”.

Le acute pagine che Breschi dedica a Ugo Spirito sono molto efficaci per comprendere come anche nel rapporto con la civiltà urbana e delle macchine il fascismo sia molto ragionevole. Alla fine, anche in questo caso finisce per collocarsi in una posizione di compromesso temperando la foga posta nell’esaltazione delle campagne (la ruralità).

Il risultato fu di non chiudersi in uno schema rigido dominato dal primato delle “battaglie per il grano”, e quindi da “un’economia patriarcale, antiespansionistica, antimperialistica per eccellenza”.

Sono i termini dalla campagna ruralista lanciata da Mussolini nel 1929, che dieci anni dopo, cioè nel 1939, mostra il suo fallimento con l’incremento delle migrazioni, il sensibile sovraffollamento di Milano e Roma e l’adozione di una legislazione (la n. 1092 del 6 luglio 1939) che proibiva ulteriormente il trasferimento senza motivi di lavoro in centri urbani di dimensioni medie.  

Ma anche questa misura di freno dell’urbanesimo sarà un insuccesso proprio nei luoghi in cui si era avuto lo sviluppo industriale. E la stessa campagna per una politica delle “città nuove” dovrà, alla fine, prendere atto che esse venivano insediate laddove le richiedevano gli interessi delle aziende agricole o industriali.