Jean-Pierre de Caussade è un padre gesuita vissuto tre il 1675 e il 1751. Nel decennio tra il 1731 e il 1741 esercita l’ufficio di direttore spirituale presso il convento della Visitazione di Nancy e a questa sua opera si deve il breve trattato L’abbandono alla provvidenza divina. E’ abbastanza certo che la stesura non sia sua, ma della Superiora del convento, che avrebbe ripreso lettere e conferenze del sacerdote, al fine di ricompensarlo per il suo servizio alla comunità. La lettura non sembra risentire di una prosa imprecisa e priva di stile; anzi, essa corre limpida e piana, quasi non si trattasse di un trattatello di carattere spirituale, bensì di un piccolo saggio sulla vita di fede, scritto con dolcezza e acutezza psicologica. Non è necessario conoscere in dettaglio la storia della spiritualità cristiana in quei secoli per scoprirvi qualche traccia di pietismo, che tuttavia non disturba la lettura anche di chi sia portato all’azione oppure provenga da un’educazione cristiana basata sulla forza di volontà.



Nelle riflessioni dell’autore ricorre spesso l’espressione “il dovere presente”, in questa forma o con lievi varianti, tanto da far pensare che essa abbia un’importanza per così dire centrale nel suo pensiero. Niente di prescrittivo in essa, o di rigido, bensì l’amore e l’obbedienza alla volontà di Dio che si manifesta in ogni occasione della giornata o lembo della vita attraverso ciò che accade.



E’ un punto unificante di ogni attività, pensiero, sentimento che per loro natura sono mutevoli e brevi. Se l’instabilità delle cose non è percepita e governata in qualche modo, l’io tende alla dispersione e rischia di perdere molte occasioni di gioia e di maturità. Detto in una parole, perde il tempo. Quanto più si illude di spenderlo bene nella girandola che riempie la giornata, tanto più si ritrova a sera più svuotato che stanco.

Ecco dunque l’utilità del suggerimento che viene da questo saggio sacerdote del Settecento, fine conoscitore dell’animo umano, dotato di una singolare dolcezza persuasiva, che non gli deriva dai concetti (anche se la sua preparazione dottrinale doveva essere salda), ma dall’attenzione alla concretezza della vita, dal compito di giovare a chi la volontà di Dio gli affida per indicare la strada della gioia. “Non resta altro che ricevere l’eternità divina nello scorrere delle ombre del tempo… Sotto le ombre Dio opera la vita”.



E’ una scrittura, la sua, piana, pacificante, che non disdegna gli esempi tratti dalle Scritture e dal creato: viviamo con “lo sguardo sempre fisso al sole e ai nostri doveri che ne formano i raggi… Noi siamo veramente istruiti solo dalle parole di Dio… da quel che ci accade momento per momento”.

Non c’è traccia di svenevolezza spirituale o di gergo clericale che allontanano la simpatia del lettore di oggi. Questo piccolo saggio può ben trovare un posto luminoso in un’epoca che tra poco conoscerà la durezza dell’Illuminismo.