Gianfranco Soldera, uno dei più celebrati produttori di vino italiani nel mondo, non c’è più. Sabato mattina la sua auto s’è schiantata contro una pianta, in quella zona di Montalcino, Case Basse, che dava il nome alla sua cantina leggendaria dove dagli anni settanta aveva deciso di fare il vino più buono del mondo. Un vino che nel millesimo 2013, l’ultimo in commercio, è valutato 500 euro a bottiglia, figurarsi le altre bottiglie da collezione.
Ora, Gianfranco Sodera era un tipo burbero, uno senza mezze misure, poco amato nel territorio, lui veneto d’origine ma milanese come luogo di lavoro (faceva il broker assicurativo) e ilcinese come produttore di vino. Non era simpatico a tanti, ai quali i suoi metodi per fare il vino (sceglieva un acino alla volta, a mano, perché fosse perfetto e il resto lo scartava) figuravano come una provocazione. Però io gli volevo bene, perché dietro a un grande vino ho sempre pensato che ci fosse una passione umana speciale per ritrovare quel racconto atavico del rapporto fra l’uomo e la terra che alla fine crea qualcosa che si avvicina all’arte.
Negli anni ottanta ci vedevamo spesso, ai Castagni di Vigevano o a Sant’Espedito: in cinque o sei ad assaggiare le migliori bottiglie che un ex orafo di Valenza, Rino Fontana, recuperava per passione. E così si assaggiavano i vini del papà di Angelo Gaja, di Giovanni Conterno, di Josko Gravner. Il sogno per ogni appassionato. Mi accompagnava sempre Fabrizio Venturini (che oggi è monaco alla Cascinazza, alle porte di Milano ed è mastro birraio), perché la guida al ritorno era un’impresa.
Quando ha compiuto 80 anni, due anni fa, proprio in questi giorni che celebrano la nuova annata che entra in commercio del Brunello di Montalcino, ho voluto stare con lui, come ai vecchi tempi. E gli ho rubato un’intervista che poi ho pubblicato in Giappone. Molto divertente. Aveva pochi amici fedeli e ripeteva a noi giornalisti che eravamo dei frustrati perché avremmo dovuto parlare solo e sempre di cinque, massimo sei produttori: Soldera, Josko Gravner, Roberto Conterno, Mauro Mascarello e Loris Follador che, ironia della sorte, lunedì sera era seduto di fianco a lui e s’è aggiudicato una McKenzie da cinque litri del suo raro vino del 2010. Raro perché nel 2012 un suo ex dipendente malvagio gli aprì i rubinetti di 10 botti, mandando nelle fogne un patrimonio. E Soldera che ha fatto? Ha imbottigliato in grandi formati il poco vino che è riuscito a salvare e l’ha messo all’asta, per opere di beneficienza, raccogliendo quasi un milione di euro. E’ stato a Londra e lunedì sera era a Milano, al Mudec, invitato da Maurizio Lupi (l’onorevole, ex ministro, che gli era amico). Io ero a Firenze ed ho interrotto le mie degustazioni per essere con lui, insieme ad altre 200 persone di umanità varia: appassionati, uomini del mondo della finanza, della politica, della cultura e dell’editoria. E poi quelle religiose che affettivamente chiamiano “suorine”, che nel quartiere di via Martinengo a Milano portano avanti un progetto, la Casa di Sam, per aiutare le famiglie più disagiate, i bambini.
Gianfranco Soldera aveva messo a disposizione tre Jeroboan (bottiglie da tre litri) e una McKenzie (5 litri) da sorteggiare previa offerta. A fine serata abbiamo raccolto 110mila euro e tutti abbiamo assaggiato quel vino raro, che sapeva di spezie nobili (caffè e cioccolato), ma soprattutto di territorio. Lui non ha voluto parlare, e quando è salito sul palco per consegnare un simbolico assegno alle religiose, quasi si nascondeva. Però era felice: io lo guardavo dal mio tavolo e lui era con quel suo bicchiere rotondo che aveva fatto fare apposta e si godeva quel vino, che la sciagura non aveva distrutto del tutto. Era felice, perché a fine anno aveva subito un’operazione, che lo aveva rimesso in sesto. E quando mi ha visto mi ha detto: “Ho guadagnato vent’anni”.
Due giorni dopo sono ripartito per Montalcino e così anche lui, insieme al fidato Rino Fontana. Io ho assaggiato i 120 campioni di Brunello annata 2014, che lui non ha voluto produrre, perché il risultato della vendemmia era modesto, mentre Gianfranco era in giro per le sue vigne, in una bella giornata di sole, a coccolare nuovi progetti. Sabato mattina, ancora in giro, da solo, con la sua auto, per quelle strade di campagna conosciute da una vita, dove la moglie Graziella, esperta botanica, aveva una collezione di rose unica, che per Gianfranco era il simbolo della sanità di quei terreni, coltivati in maniera assolutamente naturale. Ma probabilmente era la sua ora: l’auto è finita contro un albero e non c’è stato nulla da fare.
Ed io guardo ancora la foto che gli ho scattato lunedì, che mi aveva chiesto Marco Gatti. La guardo mentre a cena con don Carlo Casati, sabato sera, gli chiedevo dove sta il merito: “Sai Paolo – diceva lui – il teologo Von Balthasar sosteneva che l’inferno probabilmente è vuoto”. E allora io penso che Gianfranco vivrà attraverso la casa di Sam, i suoi figli Mauro e Monica e il genero Paolo, che sono cantina. E poi attraverso i suoi vini, la sua interpretazione che è diventata un metodo, la sua anima generosa che voleva nascondere, ma che era qualcosa ad immagine e somiglianza. “Cos’è l’uomo perché te ne ricordi?” si domanda il salmista. Ogni uomo è un’opera agli occhi di Dio. Grazie Gianfranco!