Un piccolo libro con un titolo lungo, che riproduce l’ultima parte della tesi di dottorato in filosofia (con prefazione del suo prestigioso direttore di tesi) di uno studioso il quale si è occupato di un importante filosofo francese che a sua volta ha molto scritto su un articolo di Kant apparso nel 1784: di fronte a una tale serie di matrioske ci coglie la vertigine. Un inscatolamento accademico come questo sembra infatti, a prima vista, poco leggibile e poco comunicabile. E invece, quando il filosofo in questione è Michel Foucault (1926-1984), troviamo in questo libro qualcosa di significativo, che ci è di aiuto per la riflessione sui tempi attuali e sulla nostra umana condizione dentro di essi.
Scrive Foucault: “In effetti il filosofo ha smesso di voler dire ciò che esiste in eterno. Ha il compito ben più arduo e ben più fugace di dire che cosa accade”. Affermazione interessante, anche perché non necessariamente condivisibile. Mentre invece è difficile non essere d’accordo con quest’altro pensiero foucaultiano: “Continuando a ripetere che la nostra organizzazione sociale o economica mancava di razionalità ci siamo ritrovati dinanzi non so se a un difetto o a un eccesso di ragione, certamente di fronte a un eccesso di potere”.
Ma Foucault si pone anche questa domanda: “Come può accadere che la razionalizzazione conduca al furore del potere?”. E qui il discorso si fa particolarmente interessante. Perché una tale domanda sembra implicare la fede nella forza benefica della razionalizzazione in quanto tale; donde lo scandalo rispetto alla degradazione della razionalizzazione. E invece per molti altri pensatori, già ai tempi dell’Illuminismo (i tempi di Kant studiato da Foucault), la domanda si pone al rovescio: Come può accadere che un radicale sviluppo della razionalizzazione non conduca al furore del potere?
Foucault scrive anche: “In fondo il problema è esaminare una ragione, l’autonomia della cui struttura reca insieme con essa una storia di dogmatismo e di dispotismo; una ragione, dunque, che può avere effetti emancipatori solo a condizione che riesca a liberarsi da se stessa”.
Senonché, come fa la ragione a “liberarsi da se stessa”? La critica al razionalismo non può essere soltanto interna a esso (che è la posizione, in questo senso conservatrice, di Foucault). Una critica che sia autenticamente tale deve partire da una posizione alternativa, dunque esterna. Peccato che quest’ultima venga ancor oggi stigmatizzata con il termine riduttivo di “irrazionalismo”. Ma in verità, dovremmo attribuire un senso almeno in parte negativo a entrambi i termini, “razionalismo” e “irrazionalismo”; e deciderci ad accettare l’idea che la ragione da sola non potrà mai, contrariamente alla speranza di Foucault, liberarsi da se stessa (come il Barone di Münchausen che pensava di sollevarsi in aria tirandosi per il codino), ma dovrà ricorrere a una dimensione che solo parzialmente può identificarsi con essa ragione.
E per designare in breve (diciamo, in modo stenografico), questa dimensione si può ricorrere a una delle parole-chiavi del grande filosofo e teologo pre-illuminista Blaise Pascal (1623-1662): “cuore”. Termine che naturalmente non va inteso in modo sentimentaleggiante e meramente privato, ma come l’emblema di tutto un complesso di pensieri e azioni che rappresentano l’altra faccia, il flip side, di ogni razionalismo dall’Illuminismo fino a oggi: il senso della tradizione storica e comunitaria e il senso della vita spirituale (che si può esprimere in forme istituzionalmente religiose o più fluide e anche “laiche”). E’ tutto un vasto campo di fenomeni intellettuali e sociali il cui studio continua a essere coltivato soprattutto oggi, quando il dibattito sull’Illuminismo è più che mai aperto.
Forse, allora, potremmo essere tutti d’accordo con Foucault in questa sua domanda, drammatica e nobile: “Come possiamo esistere in quanto esseri razionali, fortunatamente destinati a praticare una razionalità che è sfortunatamente attraversata da pericoli intrinseci?”. La sfumatura del “forse” potrebbe sembrare eccessivamente cauta; e in effetti non l’avrei introdotta; fino a pochi giorni fa, quando una collega mi ha trasmesso il testo di un’intervista che mi ha fatto pensare.
Si tratta della dichiarazione di un giovane romanziere francese, Édouard Louis, che pare furoreggi attualmente a Parigi, e che comincia a essere tradotto anche in inglese (l’intervista è apparsa in inglese nella molto chic New York Review of Books). A un certo punto l’intervistatore chiede a Louis, che si è interessato particolarmente a filosofi come Pierre Bourdieu e come Foucault, che cosa egli abbia ricavato dal loro studio; e la risposta è: “Mi hanno insegnato qualcosa di molto importante: che non esiste verità senza ira. L’ira è la chiave per comprendere il nostro mondo, e forse è lo strumento più scientifico che gli essere umani abbiano inventato. L’ira è ciò che ti dà la distanza necessaria a comprendere la struttura sociale nella quale sei capitato. I libri di Bourdieu e Foucault sono pieni di rabbia; e lo stesso è vero, spero, dei miei libri”.
Ma nella frase citata all’inizio, non era chiaro che per Foucault la trasformazione della razionalizzazione in “furore”, e specificamente “furore del potere” era un fenomeno negativo? Qui non si tratta di fare correzioni o comparazioni scolastiche; è in gioco qualcosa di molto più importante: lo sviluppo non lineare del pensiero e dell’etica, l’imprevedibilità nel salto delle generazioni. Che può essere anche un salto all’indietro: qui infatti ricompare il nesso (di origine marxiana e non solo) fra la razionalizzazione da un lato e l’esaltazione di atteggiamenti di furore o rabbia o ira (non è il momento adesso di disquisire sui sinonimi) dall’altro. Insomma, sembra che certi fantasmi stiano ritornando.
(Dall’Introduzione alla tavola rotonda sul libro di Rudy M. Leonelli, “Illuminismo e critica. Foucault interprete di Kant”, Quodlibet 2017, con Carlo Galli e Guglielmo Forni Rosa, Chiesa di San Colombano, 7 febbraio 2019, Bologna)