Febbraio 1969, quartiere di San Cristoforo, il Bronx di Catania. Alcuni universitari della Fuci e i ragazzi di Gioventù studentesca si sguinzagliano nel quartiere per realizzare un’inchiesta, con criteri scientifici, sulle condizioni sociali, economiche e culturali degli abitanti. L’idea era maturata dopo alcuni anni in cui i giovani avevano trascorso le domeniche pomeriggio a giocare coi bambini nelle piazze della zona. Nel suo impatto iniziale quel momento, come ricorda uno dei volontari di allora, era stata “un’esperienza traumatica”: gli studenti catanesi si erano trovati di fronte a un mondo ignoto, fatto di sofferenza, di miseria, ma anche di vitalità. E avevano cominciato non solo a conoscerlo, ma anche a condividerlo.



Nel tempo erano maturate l’amicizia coi bambini e le famiglie del quartiere nonché l’esigenza di aiutare i ragazzini in un bisogno che appariva fondamentale: quello educativo. L’evasione scolastica, infatti, era a livelli altissimi. Poi venne l’idea dell’inchiesta per verificare meglio la realtà. I dati che emersero da quell’indagine (pubblicata da Jaca Book nel 1970 col titolo La missione dietro l’angolo. Un gruppo nel quartiere) furono impressionanti: il 30% delle famiglie viveva in una sola stanza; il 19% degli abitanti era analfabeta; solo il 2% aveva conseguito un diploma di scuola media superiore o frequentava l’università.



A 50 anni di distanza dall’inchiesta curata dai giovani di Gs e Fuci, alcune foto storiche di San Cristoforo nel 1968, un video ivi girato in quell’anno, le copie del giornalino prodotto dai volontari di Gioventù studentesca (Sicilia studenti) costituiranno una sezione di una grande mostra documentaria multimediale su “La Sicilia che non s’arrende (1968-1969)”. La mostra, co-prodotta dalle Fondazioni Domenico Sanfilippo Editore e Credito Valtellinese, verrà inaugurata il 21 febbraio nella sede storica del Credito Siciliano in piazza Duomo ad Acireale.

Torniamo all’inchiesta su San Cristoforo del 1969. Il dato più inquietante di quell’indagine è da individuare nel fatto che le famiglie, pur prive dei servizi essenziali, appena possibile e anche a costo di indebitarsi, acquistavano un televisore o un bene di lusso. I bisogni reali rimanevano insoddisfatti, mentre l’urgenza era rivolta ai bisogni indotti.



La questione emerse drammaticamente nello scambio epistolare fra un giovane catanese andato missionario in Brasile, in una “Villa operaia”, e il suo assistente spirituale, don Ciccio Ventorino, che guidava la caritativa a San Cristoforo.

Scrive il giovane: “Anche se riuscissi a portare lì scuola, strade, ospedali, luce, acqua non farei altro che integrare incoscientemente la Villa operaia in quel sistema socio-economico brasiliano che si tenta di contestare”.

Le domande che emergevano dall’impegno a San Cristoforo non erano tanto diverse da quelle del Brasile. “Nel nostro meridione o a San Cristoforo – rispondeva l’allora assistente della Fuci e responsabile di Gs, don Ventorino – il mercato è invaso da beni consumistici e meno dai beni necessari allo sviluppo e alla promozione della persona (case, scuole, impianti industriali articolati, iniziative di qualificazione professionale)”.

Come muoversi in questo contesto? Che risposta dare a chi, sull’onda della contestazione studentesca, riteneva inutile un’azione caritativa nelle periferie del mondo e proponeva, invece, la rivoluzione per cambiare il sistema?

“La nostra azione educativa – scriveva don Ventorino – deve essere duplice: da un canto fornire gli obiettivi concreti di giustizia sociale da raggiungere, dall’altro canto rinnovare nelle persone la carità, cioè provocare l’avveramento del loro essere personale e sociale”.

Il sacerdote-educatore concludeva indicando quattro passi necessari in quel momento storico e in quella periferia dimenticata: 1) un’azione educativa e di alfabetizzazione rivolta sia ai bambini, sia agli adulti; 2) la ricerca di sbocchi occupazionali; 3) la scelta di uno strumento efficace sul piano politico (“Entreremo nel partito? In quale? Ci manterremo all’esterno con una funzione di pressione culturale? Questo ancora non ci è chiaro”); 4) la necessità di continuare a porre fatti “che rinnovino in noi continuamente la ragione e la forza della nostra azione, cioè la nostra carità, che comprendiamo sempre più come l’unico modo vero di essere, cioè come il compimento della verità dell’umano, e quindi della nostra vocazione”.

Il cammino individuato implicava un lavoro, non sempre facile, vuoi per la difficoltà della situazione e l’insorgere di sempre nuovi bisogni, vuoi per l’effetto dell’ideologia rivoluzionaria che spingeva a considerare inutili i tentativi che miravano a cambiare la persona piuttosto che il sistema.

E’ interessante notare come l’esito delle scelte compiute allora dagli universitari e dagli studenti di Gs impegnati a San Cristoforo abbiano segnato la loro vita e quella della società in cui operavano.

Da quelle scelte emersero rivoluzionari e missionari; leader dei partiti di sinistra, buoni borghesi e grandi testimoni della carità; politici ed educatori. L’alternativa fu fra la lotta per rinnovare le strutture e un’amicizia che cambiava la persona.

In tutti i volontari di San Cristoforo del 1969, comunque, è rimasto un segno indelebile. 

Il direttore della rivista Sicilia studenti, oggi ordinario all’Università di Catania, rileggendo l’effetto di quegli avvenimenti sui volontari commenta: “Credo di assistere a una convergenza di destini verso un unico e comune impegno nella vita”. La domanda, per tutti, resta: che ne abbiamo fatto di quel desiderio che ci ardeva nel cuore? E che ne facciamo oggi della nostra esistenza?