Il libro di Mario Barcellona dal titolo Dove va la democrazia. Scenari dalla crisi, edito da Castelvecchi (2018), offre una disamina della contemporaneità operata attraverso l’analisi del concetto di democrazia e, soprattutto, della sua crisi. Quest’ultima nasce una quarantina di anni fa. Non a caso l’autore parte da un Report vergato (a metà degli anni 70) dalla cosiddetta “Commissione trilaterale” dal titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie. Secondo Barcellona, il vero obiettivo di quell’analisi era lo Stato sociale e i rapporti di forza tra capitale e lavoro che nello Stato sociale prendevano forma. Alcune delle ricette proposte allora effettivamente lasciano basiti: il primato della competenza sulla democrazia, la spoliticizzazione della democrazia, la necessità che il funzionamento di un efficace sistema democratico necessiti di una dose di apatia e disimpegno.



La strategia sollecitata in quel rapporto fu attuata negli Usa da Reagan e nel Regno Unito dalla Thatcher. E poi pian piano ha fatto breccia in tutta Europa, comprese le sue tanto celebrate socialdemocrazie. Il risultato (voluto) è stato quello di mandare in soffitta il compromesso keynesiano e con esso il glorioso trentennio del welfare. Due le operazioni che hanno reciso questo trentennio: la marginalizzazione del lavoro (l’impresa è stata liberata dalla rigida dipendenza dall’occupazione) e la marginalizzazione dello Stato (da un lato per l’accresciuta rilevanza delle istanze sovranazionali, dall’altro per il maggiore potere attribuito ai “mercati”). La democrazia politica si è trasformata in democrazia liberal-liberista.



Qualcuno ha pensato di trovare rimedio alla crisi della democrazia attingendo a paradigmi come la Postdemocrazia, la Controdemocrazia o, ancora, la Democrazia deliberativa. Barcellona si mostra scettico rispetto a queste possibili terapie. Soprattutto perché non crede che la democrazia possa essere salvata dall’esterno. Anche perché guardando fuori dalle istituzioni si scopre una realtà tutt’altro che bella da vedere. E non basta solo la ragione economica a spiegare ciò che accade. In pagine dense e avvincenti, Barcellona dimostra che ci troviamo di fronte a un mutamento antropologico: c’è stata “una modificazione profonda del modo in cui gli uomini hanno preso ad intendere se stessi ed il loro rapporto con gli altri, in forza di un orizzonte molecolare ove si annuncia che ognuno può salvarsi da solo e che ad ognuno è aperta la porta del successo”. Assistiamo alla privatizzazione della speranza e a un’universale singolarizzazione. La società singolarizzata non ha più spazio per la politica. Né può essere rappresentata.



Nella società singolarizzata la “stratificazione sociale ha preso la forma di una clessidra, ove la parte superiore è occupata dalle élite, dalle loro corti e dai minores che esse garantiscono ed in quella inferiore trova posto tutto il resto, l’insieme molteplice dei non protetti”. La società singolarizzata produce il populismo e offre come alternativa solo l’indifferenza e la rassegnazione.

La singolarizzazione (e l’indistinzione che l’accompagna) mira a oscurare il conflitto e la rappresentazione che esso riceveva nella distinzione di destra e di sinistra. E Barcellona spiega che il populismo di oggi “si annida anche nella ‘rottamazione solo generazionale’ e nelle svariate altre formule in cui quel che sta dentro il cerchio degli insider (ovvero: chi sta nella parte superiore della clessidra) si fa promotore di un mutamento senza cambiamento, ovvero nell’antipopulismo senza destra e senza sinistra, ovunque il socius cede il posto al singulus e questo regredisce nel proprium, nell’autoreferenziale per sé”.

L’autore denuncia “l’altro populismo”, quello delle élite. Il collante della parte superiore della clessidra è la paura: per questo non si può contare su di essa per rivitalizzare la democrazia.

Barcellona dedica i successivi capitoli a spiegare le caratteristiche della “democrazia singolare” (brutte anche da descrivere, come la precarizzazione e la delusione) e a tratteggiare il ritorno della hobbesiana moltitudine senza politica e senza rappresentanza: la democrazia singolare è una democrazia amministrativa (senza politica) che alimenta e produce solo contingenza.

Ma dopo un’analisi spietata, il libro si chiude con una ricetta che fa leva sulla necessità di concepire un nuovo immaginario da contrapporre al pensiero unico che ci sovrasta. Nel libro c’è la conferma di un’idea: è avvenuto un mutamento antropologico. Da un certo momento in poi è cambiato il modo di pensare delle persone. Ci si può interrogare sul perché questo sia avvenuto. Ma è una scoperta fondamentale perché, sia pure in chiave negativa, pone comunque al centro l’uomo. È l’uomo (non l’economia, non i mercati) che fa o può fare la differenza.

Se è vero che l’uomo può (e, quindi, deve) decidere in prima persona il senso della propria esistenza e può farlo senza che qualcuno lo “addomestichi” pavlovianamente e senza necessariamente adattarsi alla legge mercantile della domanda e dell’offerta, lo sforzo deve essere quello di puntare sull’uomo (senza paura, se del caso, di scoprirsi credenti: una fede nell’uomo).