Non c’è dubbio che la popolarità del filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza, vissuto tra il 1632 e il 1677, sia negli ultimi anni in continua crescita; in effetti,  dopo decenni (ma potremmo dire secoli) di esiguo e rapsodico interesse, ora le università italiane dedicano al suo pensiero corsi e seminari. Nella sola Milano ben due sono i seminari spinoziani permanenti: uno ospitato dalla Fondazione Corrente e uno mensile di lettura del suo capolavoro, l’Etica, presso l’Università degli Studi. Ma la fama di Spinoza va ben oltre la cerchia degli specialisti e dell’Accademia, basti pensare che in apertura di un concerto di qualche anno fa Vasco Rossi lo citava come fonte di ispirazione.



Eppure nella sua breve vita Spinoza è stato un filosofo solitario, allontanato dalla sua comunità di origine, quella degli ebrei sefarditi di Amsterdam, attraverso un terribile cherem (maledizione) scagliatogli contro dai rabbini della comunità per punirlo – lui destinato fin da ragazzo a divenire rabbino – per le sue posizioni eretiche. Malvisto dai calvinisti e dalle altre comunità religiose che lo sospettavano di ateismo, fu sostenuto da un gruppo di amici che furono i suoi interlocutori preziosi. Quegli stessi amici pagarono i suoi funerali, dato che Spinoza – semplice molatore di lenti, forse morto di tubercolosi proprio a causa della polvere di silicio inspirata per anni – morì povero senza lasciare alcun bene, e provvidero anche a pubblicare postume le sue opere.



Ora, le ragioni dell’interesse diffuso per Spinoza stanno probabilmente nel suo modo d’intendere la filosofia, che egli non vede come un’impresa puramente intellettualistica, volta ad una conoscenza magari chiara e distinta ma fine a se stessa, bensì come un cammino etico e politico che deve condurre l’uomo verso il conseguimento di una maggior perfezione, intesa come un sempre maggiore potenziamento della natura umana atto a incrementarne la letizia e la pace interiore e a costituire comunità libere.

A questo proposito risulta di particolare interesse ripercorrere le pagine di una sua opera giovanile, il Trattato sull’emendazione dell’intelletto perché rappresentano un  punto cruciale della sua opera e testimoniano la sua “conversione” alla vita filosofica.



Spinoza ci racconta all’inizio di questo testo, un inizio dall’andamento drammatico, carico di tensione emotiva, un momento di  suo profondo smarrimento che lo costringe, a un certo punto della sua vita – ipotizziamo intorno ai trent’anni – a riflettere sulla finalità della vita stessa, potremmo dire sul suo senso.

Davanti a sé egli vedeva l’abito di vita comune, quello ricercato per lo più dagli uomini, seguito finora da Spinoza stesso e dedito all’ottenimento dei tre beni più ricercati: la ricchezza, la fama, il piacere sessuale. Spinoza dice che la mente è distratta da tali tre presunti beni e usa qui il verbo “distrarre” (distrahere in latino) per indicare precisamente una torsione innaturale della mente, violenta (come quella che caratterizza una “distrazione articolare”) che porta la mente ad un vortice ossessivo in cui il pensiero non riesce a focalizzarsi su altro, e che conduce per lo più ad una sorta di ottundimento e di ebetudine. La situazione così ben descritta può essere apparentata a quella delle dipendenze ed è in effetti distruttiva, per Spinoza, non tanto nel senso della distruzione fisica, della morte, quanto nel senso di un profondo snaturamento dell’umano. In effetti in questo abito di vita che confonde la propria realizzazione con l’accumulo di beni oppure con il riconoscimento da parte della folla oppure con l’ebrezza della commistione dei corpi, l’uomo è come posseduto da una alterità che gli è avversa e che lo domina, conducendolo ad un esito distruttivo del suo più autentico sé.

Ci troviamo di fronte ad un nodo che lega la distrazione e la distruzione e che riecheggerà curiosamente secoli dopo nell’opera di un altro grande intellettuale ebreo isolato, Walter Benjamin, che leggerà in modo ovviamente diverso i due concetti, un modo consono alla società di massa del primo Novecento, di cui è acuto critico, e alla tradizione hegelo-marxista che lo ispira.

L’alternativa alla distrazione è allora l’ascetismo? No, non per Spinoza che dichiara in vari punti della sua opera come sia da considerare un bene scacciare la malinconia con danze, cibi, bevande, musica…

La meditazione filosofica interviene a questo punto in modo salvifico, ponendo i tre beni considerati nella giusta prospettiva: non sono fini della vita, semmai beni da cui trarre misurato conforto; occorre dunque fuggire la distrazione  totalizzante che ci rende loro succubi, rivolgendoci con tutte le forze ad un nuovo abito di vita, tutto da esplorare e da costruire, che salvaguardi la nostra natura di uomini, ovvero di espressioni finite, nel corpo e nella mente, della sostanza divina.

È questo il compito a cui si dedicherà l’intera filosofia di Spinoza. Certo non si tratta di un compito facile ma, per citare le parole con cui Spinoza conclude la sua magistrale Etica: “tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare”.

L’articolo anticipa i temi che l’autrice affronterà oggi, 14 marzo, nel terzo appuntamento del seminario “Dis-dire” organizzato da Prologos a Milano