C’è ormai un pensiero dominante che ha preso largamente il sopravvento nei giudizi politici e nelle interpretazioni giornalistiche. Se il sistema economico è in crisi la colpa è essenzialmente di quel neoliberismo, molto spesso a cui si associa l’aggettivo “selvaggio”, che ha dominato lo scenario di piccole e grandi nazioni. Dalla recessione del 2009 al crollo del ponte di Genova, dalle migrazioni alla crescita delle disuguaglianze tutti problemi contemporanei sarebbero da attribuire a un’ideologia che ha avuto il sopravvento e che avrebbe permesso alle forze del mercato di far diventare i ricchi sempre più ricchi e, ovviamente, i poveri sempre più poveri.



La realtà è molto più complessa delle descrizioni sommarie e dei processi ideologici. E i giudizi molto spesso sono pre-giudizi tra i più difficili da scalfire. Un po’ come l’austerità, una politica che è regolarmente posta sul banco degli imputati perché avrebbe causato danni e malanni sulla spinta delle politiche europee: salvo poi magari scoprire che negli ultimi anni, tranne nel breve periodo del Governo Monti, non vi è mai stata in Italia una vera riduzione della spesa pubblica.



Un’altra parola regolarmente posta sotto accusa è “globalizzazione”, che sarebbe la vera causa della disoccupazione, dei fallimenti delle aziende, delle crisi finanziarie e industriali. E hanno poco successo coloro che cercano di spiegare che mai come negli ultimi anni si sono drasticamente ridotte a livello mondiale la povertà, la fame e le malattie. Così come mai come in questi ultimi decenni è migliorata la qualità della vita, si è estesa la rete delle comunicazioni a prezzi sempre più bassi, c’è stato uno sviluppo delle tecnologie non solo per i computer, ma anche per la sanità, i trasporti, l’agricoltura.



Mettiamoli insieme: neoliberismo, austerità, globalizzazione. Il risultato è la vittoria di Trump, il voto per la Brexit e il successo statalista-populista in Italia. Non importa che neoliberismo, austerità e globalizzazione siano vissute più a livello di percezione che di realtà. Nelle scelte popolari la percezione diventa realtà ed è poi con questa realtà che bisogna fare i conti.

Ci sarebbe bisogno di riavvolgere il nastro e di riprendere in mano i fondamentali e di guardare alla concretezza dei fatti economici e, almeno in parte, anche politici. È quello che tenta di fare un esplicito pioniere del neoliberismo (quello vero, non la parodia del mainstream): Alberto Mingardi, fondatore e direttore dell’Istituto Bruno Leoni. Nel libro La verità, vi prego, sul neoliberismo. Il poco che c’è, il tanto che manca (Marsilio 2019) c’è un doppio itinerario: da una parte quello nella teoria economica, dall’altra quello nella realtà della storia. La difesa del neoliberismo assume così un duplice aspetto: da una parte le ragioni degli economisti, in particolare di quelli che hanno messo in luce la maggiore efficienza di una società fondata sulla libertà e la proprietà privata e regolata dai prezzi oltre che da buone leggi; dall’altra un approfondito excursus storico che dimostra come innovazione, crescita e aumento del benessere siano in larga parte da attribuire alle scelte libere e spontanee (anche se talvolta fallimentari) delle persone.

E si può scoprire allora che i problemi di alcuni paesi, per esempio l’Italia, non possono essere attribuiti a un mercato libero che in gran parte non esiste perché oltre metà della ricchezza prodotta è intermediata dallo Stato e l’altra metà è fortemente condizionata da complessità burocratiche e aberrazioni amministrative.

Nel suo complesso dalla lettura del libro emerge tuttavia soprattutto un elemento: la positività nel guardare il corso degli eventi. Non perché si nascondano problemi, tensioni e disuguaglianze, ma perché si contesta nei fatti la narrazione drammatica ed emergenziale che tanto spesso costituisce la base della mietitura del consenso. Non si tratta di ottimismo, ma di capacità di non fare una battaglia ideologica contro le ideologie. E di riscoprire il valore di fondo del liberismo (neo o post che sia). Ed è il valore positivo della persona e della libertà. Un valore che non bisogno di tutele, né di gesti clamorosi, ma che forse si potrebbe esprimere meglio se lo Stato non si appropriasse di più di metà della ricchezza che ogni persona produce.