Quando ho letto per la prima volta il Giuda di Lanza del Vasto, avevo 17 anni. Allora non avevo capito granché di ciò che avevo tra le mani. Mi pareva che Giuda fosse un paradosso della Storia, una necessità drammatica e per certi aspetti credevo giusto provare un po’ di compassione per quello sventurato cui era capitato il carico di un tradimento necessario. Dio mio, m’era sembrato perfino che Lanza del Vasto procedesse ad una sorta di riabilitazione almeno dell’uomo, se non proprio del fatto. Ma si sa, erano i primi anni Settanta. E allora ogni esperimento ardito sembrava scaldare il cuore, muovere il sangue. Rileggere quell’opera a distanza di oltre quarant’anni, be’ apre gli occhi sulla vera natura di Giuda, che nulla ha a che fare con la carne di Giuda, ma con la sua parola. O meglio, con la sua capacità di tradire la parola. Insomma il delitto è innanzitutto semantico e forse, prima ancora, concettuale.
Il Giuda di Lanza del Vasto si presenta innanzitutto come un grande organizzatore della parola. E’ ossessionato del dire, dall’ordinare in un sistema pseudo-filosofico l’evento che gli è capitato di incrociare. Non gli par vero che quel fatto possa restare confinato nei cuori dei semplici e degli ignoranti. Si tratta insomma innanzitutto di “redigere la dottrina”.
Ne sente il bisogno come strumento essenziale del proprio potere, in vista della morte di Gesù, necessaria per la sua personale opera di deificazione del Messia.
Giuda, mentre tutti gli altri restano in contemplazione di Gesù, cerca di capirlo. E lo capisce. Ne coglie il metodo, la logica, l’ordine del discorso. E li fa suoi. Anzi diviene paradossalmente il più vicino all’intelligenza del Cristo, ne sa assumere il lessico, la capacità di domandare e di rispondere, di rispondere nel domandare. Ma mentre Gesù è parola vivente, Giuda è maestro d’astrazione. Non c’è mai pertinenza tra la cosa e la cosa detta e la realtà anche quando sembra còlta, scivola via immediatamente, travolta da un altro sofisma.
Se il Cristo è la Verità, Giuda è il maestro del verosimile, o – come annota lo stesso Lanza del Vasto nell’Introduzione – è maestro di una “Verità meno uno”.
Di tutti gli artifici diabolici, il lavorio sulla parola sembra il più micidiale. Perché è la mistificazione, il lessico familiare di Satana e nella manipolazione della parola, egli assurge ai gradi più alti della propria potenza. Perché se il demonio, quando lavora sulla carne e sul sentimento, deve fare i conti con la coscienza critica di ciascuno e con la sua evidenza tormentata, con la parola gioca in un campo asettico. Non è più la cosa a mostrare le proprie ferite di fonte a ciò che essa è, ma è il suo detto a prendere il sopravvento, a rappresentarla, a lenire le sue ferite con l’uso spregiudicato del senso comune.
Il senso comune: ecco il terreno più fertile del demonio. Quello che rende verosimile il falso, accettabile l’errore, che fa arrogante l’inetto, sapiente l’ignorante, potente l’eunuco. E dopo aver giocato la sua partita su questo terreno, Giuda – che non è uno, ma è molteplice, come ogni intelligenza diabolica – ecco che gioca la partita contraria: serve una dottrina, per sconfessare la potenza subdola e melliflua del senso comune. In questo pendolare dell’intelligenza, che mai trova riposo nella certezza unica che può alimentare ogni sana intelligenza, ovvero l’essere amata, la verità si confonde, a sprazzi compare, altre volte è schiacciata sotto il suo stesso peso. Eppure sempre di verità si tratta, una parvenza di verità, una sua rappresentazione comica o drammatica (che poi sono la stessa cosa) che sposta ogni volta il polo d’attrazione dalla questione centrale: la parola carne.
Giuda è il più grande ideologo di Satana, il più intelligente perché è quasi un Cristo meno uno. Giuda è insomma la versione astratta di Gesù.
San Paolo VI, durante gli esercizi spirituali sul demonio del 1972 guidati dal giovane cardinale Karol Wojtyła, annotava sul suo quaderno personale: “Chi è Satana? Satana è l’antiparola”.
Non è dato sapere se Montini avesse letto il Giuda di Lanza del Vasto. Ma certo le consonanze sono strabilianti.
“Quanto più l’uomo cerca, studia, pensa, scopre e costruisce la sua gigantesca torre della cultura moderna – scrive Paolo VI – tanto meno si sente sicuro della validità della ragione, della verità oggettiva, della utilità esistenziale del sapere, della sua propria immortalità; il dubbio lo insidia, lo annebbia, lo scuote, lo avvilisce; egli si rifugia nell’evidenza delle sue meravigliose conquiste, egli si alimenta della sincerità delle sue esperienze, egli si fida del credito delle grandi e sonore parole di moda; ma in realtà il timore gli dà le vertigini sul valore di ogni sua cosa”.
L’equivoco semantico prende forma e diviene drammatico proprio nel cuore di questa seconda porzione del Novecento. Anche la parola è schiava dell’ideologia. Anzi, ne è la forma prima.
Paolo VI riafferma dunque, nel clima conciliare, il Cristo carne e il Cristo parola, inscindibili nell’orizzonte esperienziale della Chiesa e della Salvezza. Ma come parlare all’uomo moderno, desemantizzato e ridotto alle troppo facili forme linguistiche della pubblicità, alle semplificazioni del linguaggio politico, alla banalizzazione di un discorso che solo sa descrivere la banalità di un’esistenza semplificata? E soprattutto, come evitare il rischio, “in un mondo come il nostro, diffidente verso ogni linguaggio filosofico, e tutto rivolto al linguaggio della storia e ancor più a quello dell’espressione sensibile”, per dire cose all’uomo unidimensionato e lasciato senza parole, di aderire al suo stesso misero universo semantico?
La questione attanaglia la Chiesa stessa. “Semplificare e spiritualizzare, cioè rendere facile l’adesione al cristianesimo; questa è la mentalità che sembra scaturire dal Concilio: niente giuridismo, niente dogmatismo, niente ascetismo, niente autoritarismo, si dice con troppa disinvoltura: bisogna aprire le porte ad un cristianesimo facile. Si tende così ad emancipare la vita cristiana dalle così dette ‘strutture’; si tende a dare alle verità misteriose della fede una dimensione contenibile nel linguaggio corrente e comprensibile dalla forma mentale moderna, svincolandole dalle formulazioni scolastiche tradizionali e sancite dal magistero autorevole della Chiesa; si tende ad assimilare la nostra dottrina cattolica a quella delle altre concezioni religiose; si tende a sciogliere i vincoli della morale cristiana, qualificati volgarmente come ‘tabù’, e delle sue pratiche esigenze di formazione pedagogica e di osservanza disciplinare, per concedere al cristiano, fosse pur egli un ministro dei ‘misteri di Dio’ o un seguace della perfezione evangelica, una così detta integrazione con il modo di vivere della gente comune. Si vuole, ripetiamo, un cristianesimo facile, nella fede e nel costume. Ma non si va oltre il confine di quell’autenticità, a cui tutti aspiriamo? Quel Gesù, che ci ha portato il suo vangelo di bontà, di gaudio e di pace, non ci ha forse anche esortati ad entrare ‘per la porta stretta’? E non ha forse preteso una fede nella sua parola, che va oltre la capacità della nostra intelligenza?”
Giuda godeva nel gruppo degli apostoli di una certa fama. Lo consideravano il più intelligente e tecnicamente dotato. Gli altri, poveri e ignoranti, lo guardavano con rispetto e soggezione. Perché la tecnica – con la sua presunzione di asetticità e amoralità – si presenta nel campo del senso comune come inequivocabile. Nessuno ha parole pertinenti per dire ciò che solo i sacerdoti della scienza conoscono. Di più: essa è decisamente unica e straordinaria nel costruire un proprio senso comune. E’ una società di discorso dittatoriale, che non ammette la follia, che ha saputo piegare la politica (totalmente afona) ai propri fini. Che non solo ha – e giustamente – imposto piccole verità dimostrabili matematicamente, ma ha costruito un suo più grande e invasivo ordine del discorso, ha plasmato le comunità degli uomini, l’uomo singolo e perfino la sua anima.
Giuda è, in questo senso, veramente moderno. E’ colui che ha dato linguaggio verosimile all’Anticristo, lo ha sdoganato nell’universo semantico dei semplici. Il cuore della questione lo pone, con la sua ingenuità infantile, Simone di Cana, che si trova a dover rispondere alle domande incalzanti di Giuda sulla natura dell’Essere: “Se non domandi so; se domandi non so”. Sì, siamo nel cuore del problema, il nostro problema, quella verità meno uno che continua ad essere la peggiore delle menzogne, quella che si radica nel cuore gelido di Satana.