E’ morto a 25 anni, divorato dalla tisi che lo aveva aggredito fin da bambino. Ha dipinto (o meglio ha disegnato, perché la sua passione era la linea) solo sei anni, dal 1892 al 1898. Eppure ha lasciato un ricordo che non smette di coinvolgerci, a distanza di un secolo e mezzo dalla sua nascita.

Stiamo parlando di Aubrey Beardsley (Brighton 1872, Mentone 1898), il maggior disegnatore europeo di fine Ottocento, protagonista dell’irripetibile stagione inglese animata da Oscar Wilde e figura dominante di quegli anni Novanta che qualcuno ha chiamato appunto “l’età di Beardsley”. E’ stato insomma una meteora (la metafora è logora, ma nel suo caso rimane la più esatta), eppure grafici e pubblicitari, che sono ormai il vero metro della popolarità di un artista, non smettono di ispirarsi ai suoi lavori. E anche gli storici continuano a studiarlo. Nel 2016 è uscito il suo monumentale catalogo generale (Linda Gertner Zatlin, Aubrey Beardsley. A Catalogue raisonné, New York), mentre da noi solo nel 2018 sono uscite una monografia di Giuseppe Virelli, grande studioso del simbolismo e del primo espressionismo (Aubrey Beardsley. L’enfant terrible dell’Art Nouveau, Minerva, Bologna 2018) e una mia biografia (Aubrey Beardsley, Abscondita).



Che cosa continua a interessarci di questo singolare artista? Se lo chiedete a un grafico vi parlerà della magia della sua linea. Linea deriva da “linus”, lino, di cui evoca il filo. E tutta l’arte di Beardsley si fonda sulla purezza dell’arabesco, del “filo di lino” che sigilla le forme. La linea sottile si staglia sul bianco del foglio e lo rende più luminoso, ma soprattutto si stacca dal naturalismo e rappresenta in forme più inventate lo spettacolo del mondo. Se Oscar Wilde sosteneva che “essere naturali è solo una posa, e la più irritante”, Beardsley traduce quel giudizio etico in una legge estetica. Non ci sono nelle sue tavole il chiaroscuro, le ombre, la prospettiva con cui la pittura ha rincorso la realtà. C’è piuttosto la ricerca di una nitidezza assoluta del segno.



Se invece chiedete di Beardsley a uno storico dell’arte vi dirà che il disegnatore inglese ha superato il preraffaellismo, è stato un protagonista del simbolismo e più ancora del Liberty, ha anticipato certi esiti dell’espressionismo come dell’astrattismo di Mondrian, e ha coniato infine una sorta di neo-rococò. La sua pittura è uno scandalo nella società vittoriana, sia per la sua sensualità, sia per la sua capacità di esplorare, in anticipo sul Novecento, anche i territori del brutto. “Il bello è troppo difficile” aveva dichiarato a Yeats.

Se infine chiedete di Beardsley a uno studioso di psicoanalisi, vi dirà che il suo disegno è carico di valenze freudiane ante litteram perché l’eros, per l’artista inglese, non è un aspetto della vita, ma la vita stessa. Tutto nelle sue carte è allusivo e niente è “innocente”.

Se però chiedete di Beardsley a una persona normale (non che gli altri non lo siano…) vi dirà che l’aspetto più coinvolgente della sua figura è il passaggio dall’estetismo a qualcosa di più grande. Ci spieghiamo meglio. Beardsley è stato un dandy, come Oscar Wilde, di cui ha illustrato la Salomé (anche se le tavole infastidiscono lo scrittore, che brontola: “Il mio testo finirà per essere considerato una illustrazione delle illustrazioni di Aubrey”). E’ stato cioè uno di quegli artisti e intellettuali che, nell’Inghilterra vittoriana, volevano trasformare la vita in un’opera d’arte. Dei dandy condivide il culto dell’eleganza ricercata o eccentrica, i luoghi d’incontro, i ristoranti e i caffè esclusivi, i teatri mondani, le sartorie alla moda. Si veste da Dorè, si compra un cilindro di seta, infila una gardenia all’occhiello, indossa abiti grigi con cravatta dorata o completi neri con guanti color limone.

Poi scopre che tutte queste cose non gli bastano e lentamente trova in Cristo quell’assoluto che aveva cercato nell’estetismo e nell’arte. Non chiedetemi come. Ogni conversione è un mistero. Posso solo dirvi che le sue ultime letture sono la vita di S. Teresa d’Avila e le pagine di S. Alfonso de’ Liguori. “Tiene sempre in mano il crocifisso e il rosario” scrive di lui la sorella, pochi mesi prima che scompaia. “E’ morto come un santo” scrive sua madre.

Mancato a un’età in cui di solito si inizia a vivere, Beardsley ci lascia una grande arte. E, forse, qualcosa di più: la consapevolezza che il senso della vita non sta nella ricerca della bellezza, ma nella ricerca della Bellezza.