C’è, in fondo, un po’ di Dante anche alle origini del romanzo di Giuseppe Feyles, Strani delitti all’Hotel dei Filosofi (Manni 2018): Dante infatti nel IV canto dell’Inferno immagina che nel Limbo, in un nobile castello, vivano i maggiori intelletti del mondo classico, tra cui Platone e Aristotele. Ed ecco che Feyles, già docente, autore televisivo e scrittore, immagina un luogo dove i grandi della filosofia possano incontrarsi e passare insieme le loro giornate.



In una strana dimensione di sospensione temporale, in un hotel di un’imprecisata località di montagna, vivono ventiquattro fra i maggiori filosofi di tutti i tempi: Platone e Aristotele, appunto, ma anche Eraclito, Parmenide, Zenone, Trasimaco, Cratilo, Melisso, Agostino, Abelardo, Tommaso d’Aquino, Cartesio, Spinoza, Campanella, Giordano Bruno, Pascal, Hobbes, Hume, Rousseau, Kant e Hegel. Assistiti dalle cure di Juan Maria de Castrillo, il cameriere, dalla giovane e fresca Annette, la ragazza di servizio, e dal cuoco, che è anche voce narrante della vicenda, i filosofi passano l’infinita teoria di giornate, che si susseguono tutte serenamente uguali l’una all’altra, discorrendo di filosofia, e leggendo e rileggendo i volumi della biblioteca, che contengono tutto quanto è stato scritto nei secoli da chi si è occupato dei problemi dell’essere e della natura, dell’etica e della metafisica.



Un giorno,  però, in quest’oasi di pace entra la brutalità del delitto: Parmenide, il grande teorico dell’eternità e dell’immutabilità dell’essere, viene infatti ritrovato ucciso, con la testa sfondata. Naturalmente, il primo sospettato è Eraclito, l’Oscuro, colui che, fautore dell’eterno e inarrestabile divenire di tutte le cose, si colloca, filosoficamente, proprio agli antipodi di Parmenide. Ma la rivalità filosofica è motivo sufficiente per un omicidio, e, per giunta, così barbaramente perpetrato? Fortunatamente, Eraclito ha un alibi, gentilmente fornitogli da Agostino. Peccato che, a ben vedere, Agostino stesso non abbia, a sua volta, un alibi certo, per cui, affermando che la notte del delitto Eraclito fosse in sua compagnia, il nobile Padre della Chiesa sta, con ogni probabilità, difendendo se stesso più che il primo sospettato. Con la metodicità che gli è universalmente riconosciuta, si impegna a indagare Kant, ormai anziano e cieco: ma, ben presto, anch’egli perisce, della stessa orribile morte di Eraclito. Nei cassettini del suo scrittoio, oltre a ventiquattro matite perfettamente appuntite, e ai trucioli esito dell’operazione del temperarle, non si trova null’altro, se non una pagina bianca, con tutta evidenza strappata da un libro. Ma da quale? Tutto porta nella direzione del Parmenide, il dialogo platonico: purtroppo, nella biblioteca dell’hotel (e nei giganteschi depositi della stessa, che affondano sino a profondità sconosciute nelle viscere della terra), manca proprio questo testo.



E mentre i più geniali intelletti filosofici (prima il flemmatico Cartesio, poi l’inarrivabile coppia formata da Platone e Aristotele) si alternano alla guida dell’indagine, e le ricerche portano sempre più nella direzione del luogo topico, da Il nome della rosa in poi, per la  risoluzione dei misteri – cioè la biblioteca -, vediamo concretizzarsi, nelle pagine del racconto, l’adagio di Hegel, secondo il quale nessuno è un eroe per il proprio cameriere. Infatti, agli occhi del solerte cuoco-narratore si rivelano tutti i peccatucci dei filosofi, come, per esempio, gli strani traffici che avvengono per i corridoi e le stanze nottetempo, quando Eloisa torna a visitare il suo Abelardo.

Scritto con attentissimi rimandi alle fonti filosofiche (alle opere dei pensatori qui presentati, che non sono mere citazioni esornative, ma entrano di diritto a far parte del testo, e anche con attenzione alla vasta letteratura avente per oggetto la biografia dei filosofi, che spesso procede per aneddoti) persino nella soluzione – dato che è evidente il motivo per cui il colpevole riesca a sfuggire ai suoi inseguitori – Strani delitti all’Hotel dei Filosofi diverte il lettore, costringendolo ad aguzzare l’ingegno e a rispolverare i suoi ricordi dello studio della filosofia, ma anche ricordandogli che la filosofia e la poesia – e la letteratura in generale – sono molto più vicine di quanto non si pensi comunemente: entrambe, infatti, hanno a che fare con lo stupore (Tommaso, Summa Theologiae, I-I, q.2, art. 2).