Nella sua autobiografia Da bambino il cielo (Garzanti 2010) il poeta Franco Loi così si esprimeva sul valore della parola “cultura”: “il termine cultura viene da colere, coltivare, venerare. Ha quindi due significati importanti: far crescere l’uomo ed educarlo al culto, rispettare come sacra la vita, la natura, l’uomo; venerare, trattare con amore il mistero della creazione”.



In tempi di emergenza educativa e culturale, “Disorganici” del critico letterario Filippo La Porta innesca un’utile e importante riflessione sul nostro presente. Esistono ancora maestri in grado di risvegliare, con la loro appassionata esperienza, le energie delle nuove generazioni? È ancora possibile un pensiero critico capace di remare controcorrente non per un utopico cambiamento ma “in nome di una esperienza di pienezza vitale che abbiamo fatto e che oggi ci sembra messa in pericolo, di un destino di felicità che pure ci appartiene […] in nome dell’amore per qualcosa (senza il quale niente può davvero esistere)”?(Disorganici. Maestri involontari del Novecento, Edizioni di Storia e Letteratura 2018)



I maestri involontari di La Porta sono intellettuali del Novecento tra loro molto disomogenei, per cultura e forme di pensiero, ma accomunati dall’aver sviluppato “una critica spesso radicale della realtà presente – dunque di mode e miti culturali, di gerghi e ideologie dominanti, di poteri e di gerarchie più o meno occulti, di false credenze e di stili di pensiero correnti”.

Per molti aspetti molto diversi dai maestri sconvenienti e imperdonabili di Veneziani, già recensiti su queste pagine, anche quelli di La Porta vengono però a costituire una personale “biblioteca portatile”, un’originale galleria di ritratti pensata “ad uso delle nuove generazioni”. Troviamo accostati, sotto il segno dell’inquietudine, il socialismo morale di uno scrittore laico come Orwell (mosso da un “testardo, disarmato e quasi eroico bisogno di dire, semplicemente, la verità”) con l’Umanesimo integrale del cattolico Maritain, nella comune lotta contro il male che è “nientificazione: non dare realtà agli altri e al mondo, negare la bellezza, la grazia”.



Tra i maestri “disorganici” di La Porta (così definiti per essere stati in vita “’organici’ a qualche organizzazione o istituzione o partito” e qui ritratti invece nel “nucleo più intrattabile e inconciliato del loro pensiero”) ci sono anche i poeti. In primis il veneto Noventa, per l’indomita forza del suo dialetto capace di “nominare sia la dimensione del sacro sia quella del quotidiano” e il suo pensiero atipico, estraneo sia all’ermetismo in letteratura che all’idealismo crociano. Non manca un intellettuale impegnato come Fortini, coscienza inquieta della sinistra, il poeta di Foglio di via, de L’ospite ingrato e di Composita solvantur, di cui La Porta consiglia gli scritti di critica letteraria “così aperti sul mondo e sulla verità dell’esperienza”.

Spicca tra tutti poi la figura poliedrica di Pasolini, controverso protagonista della cultura novecentesca tra poesia, giornalismo, teatro e cinema. È interessante la rilettura che La Porta propone, quella di un intellettuale estremo e proprio per questo figura “tragica, lacerata, terminale” e irriducibile alla modernità (mentre oggi “celebrato da tutti e diventato uno stucchevole santino”). Pasolini la cui autentica speranza consiste, nella società industrializzata dei consumi, “nella idea del sacro, riletta in modo laico: una dimensione ‘altra’ sia pure dentro l’immanenza”.

Compaiono in questa fitta galleria di ritratti filosofi e politologi di diversa estrazione (dalla Scuola di Francoforte a Del Noce e Bobbio), architetti (Sottsass, Colin Ward), sociologi, storici e scrittori. Colpisce la capacità di La Porta di far riemergere nel suo libro volti e opere talvolta meno note, rivelando in poche pagine il valore profondo delle sue letture. Come il caso di Primo Levi, conosciuto per la sua opera imprescindibile sulla Shoah, ma che va riletto anche per la straordinaria forza fantastica delle sue prose, ad esempio quelle di Ranocchi sulla luna e altri animali: “lo scienziato e scrittore Levi, proprio come Galileo […], descrive la natura con curiosità, precisione amorevole, umorismo, senso dell’assurdo e ammirazione stupefatta, cogliendone la intima sostanza poetica”.

Incontriamo poi l’“illuminista tragico” Sciascia, accostato a uno scrittore così diverso come Calvino per il suo tentativo di raggiungere, stilisticamente, una leggerezza che però si scontra con la gravitas del suo pensiero: “nelle sue pagine saggistiche troviamo un conflitto, probabilmente irrisolto, tra aspirazione alla leggerezza e una certa invincibile gravità insulare, tra limpidezza del ragionare e il demone del labirinto”.

“Libertario” e “anarchico-cristiano”, con una “diffidenza quasi ontologica per il potere”, La Porta non teme di nascondere i propri orientamenti né le preoccupazioni politiche, sociali e culturali che animano la scrittura di queste dense e originali pagine. Recuperando il pensiero del sociologo americano Christopher Lasch, il “conservatore di sinistra” che aveva profetizzato con il suo La cultura del narcisismo la crisi dell’individuo nel mondo massificato, La Porta mette in discussione le idee di progresso e tecnologia, convinto che nelle nostre società globalizzate possa ancora avere senso un’ “etica del limite”. È forse ancora possibile una “cultura critica” che riparta dall’individuo, sottratto alla logica del conformismo grazie alla presenza di un suo “nucleo inaccessibile, inviolabile e ‘sacro’. Unica forma di difesa da ogni interferenza del potere”.