Mantra è una parola giunta dall’India che ha ormai acquisito una discreta popolarità nel senso di “motto, parola ripetuta” (è il suo mantra, lo ripete come un mantra). La parola non è registrata nel diffuso dizionario etimologico Zingarelli curato da Cortelazzo e Zolli, e la sua storia ha qualche elemento di interesse.



In sanscrito mantra significa “parola, frase” e anche “segreto”: può però designare, oltre che una singola parola, anche un testo, soprattutto un testo sacro, come una preghiera dei Veda.

Il mantra per eccellenza è per certe correnti mistiche indiane la sillaba ōm ripetuta in modo cantilenante: poiché i grammatici indiani insegnano che ō è sempre da considerare dittongo (in quanto esito di au), nei suoi tre elementi (a+u+m) la sillaba evoca la triade delle divinità della religione induista Brahmā Śiva Vishnu.



Dal punto di vista dell’etimologia mantra è termine formato dalla radice man– e da un suffisso –tra molto usato per formare nomi di strumenti. La radice (che nell’originaria forma indoeuropea era *men-) è la stessa che troviamo nel latino meminī, “io ricordo” e mēns, da cui mente, menzione, commento (ma anche mentire “inventare falsità”, propalare fatti che esistono solo nella mente di chi li escogita).

Dunque propriamente mantra è lo strumento del pensiero, la parola in quanto mezzo di espressione e comunicazione di un ragionamento strutturato, la parola come esito di una riflessione. Ritroviamo così nella civiltà e nella lingua della lontana India lo stesso accostamento che è ampiamente diffuso nella Grecia antica: il collegamento fra parola e ragionamento, che in greco si esprime attraverso una parola che è divenuta una delle parole chiave della cultura occidentale, la parola logos, che è insieme “parola, discorso” e “formulazione di un pensiero”. 



Mantra ha alle spalle una storia complessa, con risvolti inattesi, come càpita spesso nella storia delle lingue e delle culture. In sanscrito un derivato da mantra nel senso di “segreto” è mantrin “colui che custodisce i segreti”, il funzionario di rango elevato che è a parte di notizie riservate e svolge un ruolo di consigliere per principi e capi. Dall’India la parola viene assunta in malese nella forma mantri, e gli Occidentali, poco propensi a riconoscere culture e popolazioni distinte nel vasto crogiolo dell’Asia orientale, se ne servono (attraverso l’adattamento portoghese mandarim o l’olandese mandarij) per indicare prima i dignitari della corte imperiale cinese o gli ufficiali di rango elevato, e poi genericamente tutta la terra e la cultura cinese. La designazione è rimasta poi radicata, e ancora oggi si parla di cinese mandarino per indicare la varietà linguistica su cui si fonda il cinese standard, utilizzato come lingua veicolare in Cina.

In italiano la parola ha dato luogo, soprattutto nel linguaggio politico, a un uso metaforico: mandarino è stato spesso chiamato un personaggio di spicco di un partito o di una compagine politica, e mandarinismo una situazione in cui alcuni personaggi privilegiati pretendono piena responsabilità e ampio potere in un determinato ambito.

Vi è ancora un passaggio. C’è un agrume, di colore giallo e di sapore dolce, che è caratteristico di quella terra lontana: questo frutto si diffonde e viene ampiamente apprezzato in Occidente a partire dal XVIII-XIX secolo. Inizialmente viene designato con perifrasi quali “arancia cinese” o simili in varie lingue europee. Poi si diffonde la designazione di mandarino, sia perché mandarino è il termine usuale per indicare la terra del Celeste Impero, sia perché il colore ricorda il colorito giallo degli abitanti di quelle terre. Così la parola rimbalza dall’estremo Oriente all’Europa in un significato nuovo e imprevedibile e diventa di uso corrente, diffondendosi in quasi tutte le lingue dell’Europa (ma anche in arabo, in ebraico, in armeno e via dicendo). Solamente in inglese troviamo un termine di origine diversa per “mandarino (frutto)”: tangerine, perché nel XIX secolo esso viene importato dal Marocco attraverso lo snodo commerciale di Tangeri.