L’intestazione di questo articolo è il titolo di un recente libro di Marco Maurizi (Jaca Book, Milano 2018) che è una voce fuori dal coro rispetto al profluvio di parole spese per la rievocazione della contestazione sessantottina, ed anche rispetto alla di poco precedente rievocazione della leninista Rivoluzione d’Ottobre. Il leitmotiv di questi interventi, nella stragrande maggioranza dei casi, è riducibile al seguente giro di considerazioni. Nei contestatori del ’68 era presente una giusta critica ai limiti ed anche ai valori ipocriti della borghesia degli anni Sessanta: i termini dialogo, democrazia, moralità, pace funzionarono in quegli anni come copertura delle contraddizioni e degli sfruttamenti mesi in opera da quelle classi dirigenti. Tuttavia questa istanza critica, questa istanza di liberazione da una mentalità e da una prassi violenta e padronale, anche se ammantata di moralità e di filantropia, tale istanza di liberazione era destinata a naufragare in una sconfitta. Essa fu ingenua nel sottovalutare lo strapotere delle modalità di produzione capitalista, strapotere per altro che è necessario accettare se non ci si adatta a vivere in una società miserabilista e agraria – anche se le modalità di produzione capitalista impongono un criterio e un ritmo di sviluppo che sacrifica le esigenze di libertà e di destino sostenibili in una concezione umanistica della persona.



La contestazione sessantottina era legata a strumenti teorici quali la critica marxiana al capitalismo come sistema di produzione delle merci. Il libro di Maurizi riprende e chiarisce, con un percorso sia storico sia teorico formidabile, l’autentico carattere della teoria di Marx. Esso non consiste in una ideologia, in una visione del mondo. Esso consiste piuttosto nell’acuta denuncia del valore feticistico, idolatrico del denaro, in grado di istituire e plasmare i legami fra gli esseri umani. Nel denaro agisce un elemento enigmatico, arcano – dice Marx – che si esprime nella produzione delle merci. Una volta prodotta, la merce è in grado, come lavoro congelato, di modellare il rapporto fra i cittadini, esautorandoli dalla loro esperienza personale di fatica, difficoltà, finalità, desiderio. Tali esperienze vengono sospinte nella mera interiorità privata dei produttori dal momento che la misura e il senso del lavoro è avvistabile come produzione di ricchezza, misurabile attraverso il denaro. Il denaro diventa perciò l’unico criterio di rapporto e l’unico fine del legame. “Il Capitale, nella sua totalità, è denaro che si appropria del Lavoro, come generica, universale forza di modificazione della realtà a fini umani, sottomettendola ai propri fini, cioè all’incremento di sé, ciò produce una serie di conseguenze e contraddizioni che segnano le ricorrenti ‘crisi’ del capitalismo”.



La rivoluzione auspicata dai partiti comunisti a partire da Lenin non è semplicemente una generale rivolta di operai sottopagati (non è questa la “coscienza di classe”!), ma lo smascheramento, a partire dalla scienza di Marx, dell’inganno su cui si basa il potere della grande borghesia industriale, che nasconde il fatto che è il lavoro l’origine della ricchezza. Quest’affermazione non allude ovviamente allo spirito di solerzia e all’impegno dei lavoratori, ma piuttosto all’inganno della scienza borghese-capitalistica (l’economia classica liberale) che ha inventato un concetto di denaro come mezzo per quantificare, “cosalizzare” il lavoro. “Il denaro, che agisce da medium dello scambio, è esso stessa una merce e precisamente una merce negativa e universale: negativa perché, sottratta idealmente all’ambito delle merci, esprime il punto zero di tangenza dei rapporti delle merci tra loro: universale perché in questa sottrazione riceve la potenza di significare oggettivamente il valore di tutte le merci… In questo senso, scrive Marx, “l’enigma del feticcio del denaro è soltanto l’enigma del feticcio di merce, divenuto visibile e che abbaglia l’occhio”. Marx osserva che quello che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. “Gli uomini contemplano nello specchio del mercato effettivamente se stessi, ma non possono vedere altro che rapporti fra cose”.



Si dà così l’apparenza di una uguaglianza fra i cittadini (ognuno può diventare ricco), ma in realtà si separa l’operaio dal suo lavoro. Qui si radica l’idea di sfruttamento e l’idea di plus-valore.

È dunque da un’alleanza fra una coscienza morale ferita da una progressiva violenza programmata, alleanza che ha assunto oggi anche una dimensione intercontinentale, che nasce, quando nasce, un impegno marxista in politica. Oggi ancor più perdente, dire quasi impossibile perché la scienza capitalista si basa oggi sul potere della tecnologia che volatizza ancora di più il senso e l’identità del “lavoratore” come soggetto.

È pur vero che la prassi politica ispirata al pensiero marxista, nelle sue realizzazioni politiche (per esempio l’Unione Sovietica, ma non solo) sembra avere tradito l’istanza di liberazione del soggetto lavoratore e/o cittadino dalle forme accennate di ideologia e di oppressione. Maurizi a più riprese affronta la questione sia in riferimento agli sviluppi teorici del pensiero marxista (da Rosa Luxemburg a Lukács e oltre) sia in riferimento all’onnipresenza invincibile dei funzionamenti del “tecnocapitalismo”, già precocemente diagnosticati da Adorno e dalla Scuola di Francoforte. Da un lato i condizionamenti dell’organizzazione mondiale capitalistica inattivano praticamente i tentativi di costruire, fin anche solo di vagheggiare realizzazioni sociopolitiche “giuste”, dall’altro lato ove questi tentativi si fossero innescati c’è da chiedersi se non si sia ricaduti in un ennesimo “sapere da padroni”. La tentazione del dominio sembra esser più forte dell’istanza di riconoscimento del desiderio e del sapere dell’“altro”. “Voglio essere più di te e se tu sei più di me mi sento morire”: questa formula è onnipresente, inconfessata nella sua minaccia. È la “legge eterna dei feudi” di cui parla Vico.

Nell’ultima parte del suo libro l’autore esamina la natura delle proposte di movimenti a loro modo “anti-capitalisti” come femministi, ecologisti, animalisti vegani ecc. Maurizi apprezza tali istanze ma ne rivela anche l’impasse nascosta che sembra inattivare il desiderio da cui essi stessi prendono le mosse. Questi, per così dire, tentativi “di socialismo del XXI secolo” sono ben consci dell’alienazione dell’odierna società capitalista. D ‘altra parte disperano, comprensibilmente, di poter modificare l’onnipotente struttura tecnica, economica, politica che la sostiene. Si rifugiano perciò in un ideale di “natura pura” liberata dalle macchie e dalle contraddizioni del pensiero capitalista.

Una natura contaminata da difendere dall’inquinamento distruttivo, una concezione paritaria e libera del sesso, una concezione del corpo semplice e sano: se interpreto correttamente il pensiero dell’autore queste impostazioni presentano il limite di un organizzarsi sulla paura di perdere. Paura di perdere una natura che sarebbe ospitale e rassicurante, un godimento e un senso del proprio corpo alterato da pseudo culture, un rapporto con l’esistenza degli animali, che sono un aiuto di fronte alla malvagità insita nella natura umana.

Questi approcci sembrano censurare una contraddizione e una ferita, un non proprio non gestibile da una prassi del soggetto umano, per quanto ben intenzionato. Un rapporto più originario e più vero con il mondo e con il nostro corpo forse si nasconde in una Alterità generativa e impossedibile, sempre misconosciuta.