Cos’è un capolavoro? Che si tratti di letteratura, di musica o di cinema – di arte in generale, insomma – un capolavoro è un’opera che, a prescindere dal tempo, ha la misteriosa capacità di fare breccia, con forza sempre crescente e rinnovata, nel cuore di ogni epoca che vi si approccia, esprimendone con parole irripetibili inquietudini e aspirazioni, paure e desideri. Sia per il singolo che per la comunità rappresenta un vero e proprio pozzo senza fondo di immagini, di miti, di personaggi sentiti come affini nell’anima, di emozioni in cui rispecchiarsi e attraverso le quali è possibile scorgere, come meglio non si potrebbe, la sostanza profonda di noi stessi. Qualcosa di grande e di sublimemente vicino. Ecco il miracolo dell’arte: conoscersi con l’immersione nell’altro. A buon titolo numerose creazioni dell’ingegno umano hanno meritato la definizione di capolavoro, ma ce n’è una, scritta nel 1925, che è stata riconosciuta tale ma che è stata anche in parte dimenticata, nonostante il suo testo, scritto con una mirabile sintesi di delicatezza e tragedia, riesca incontrollabilmente a radicarsi nella parte più sensibile del nostro gusto. Stiamo parlando de Il grande Gatsby, romanzo statunitense nato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald e ambientato nella scintillante e frenetica età del jazz, altrimenti nota come Roaring Twenties, ovvero “i ruggenti anni 20”.



La vicenda, più o meno nota al grande pubblico anche in virtù delle diverse trasposizioni cinematografiche realizzate – l’ultima risalente al 2013 con la regia di Baz Luhrmann e l’interpretazione di Leonardo DiCaprio e Tobey Maguire – ha appunto come protagonista il giovane e ricco Gatsby, che, nella cornice altolocata di Long Island, aspira a ritrovare l’amore dell’agognata Daisy, abbandonata a causa della partenza di lui per prestare servizio durante la prima guerra mondiale e ora sposa dell’arrogante signorotto Tom Buchanan. Una vicenda che, sin dalle sue prime fasi, viene connotata sotto il segno della perdita, della mancanza, della rincorsa affannosa verso qualcosa che sfugge inesorabilmente.



Nell’inseguire Daisy, Gatsby tenta di trovare rimedio ad uno dei più insolubili e terribili rompicapi dell’esistenza umana: conciliare l’avanzare del tempo con la conservazione del passato, la velocità e la caducità della concretezza materiale con l’eternità della memoria. In questa disperata avventura tra le macerie di una ricostruzione dal fallimento annunciato, il nostro protagonista, il cui dramma è narrato con partecipazione dall’amico e cugino di Daisy, Nick Carraway, ci appare sempre scisso tra il continuo inciampare sui sogni di ricostituzione che man mano vanno spezzandosi e una straordinaria volontà di spendersi totalmente per l’irrealizzabile.



Ma tutto questo ha un costo: le feste che animano la sua casa sono prive di ogni contatto umano, vanamente orgiastiche, orientate al puro piacere, ricettacolo di estranei che condividono solo la fuga dalla realtà, vittime di un’irreparabile deiezione. E anche la sua ricchezza è un frutto perverso di un mondo che frustra ogni sogno: ottenuta entrando in affari con spietati contrabbandieri dell’alcol, è il simbolo ulteriore di una dinamica senza via d’uscita, che costringe chi le si avvicina a cedere qualcosa per ottenerne un’altra in cambio. L’illusione suprema che, come il personaggio di Fitzgerald, condanna tutti noi, ogni giorno.

Alla fine del romanzo, Gatsby morirà. Verrà ucciso dal marito di una donna investita dalla sua auto, alla guida della quale vi era una Daisy sconvolta dall’ennesima lite tra la vecchia fiamma e Tom. Nessuno, se non il fedele Nick, andrà al suo funerale: nemmeno Daisy, che Gatsby aveva coperto dopo l’omicidio. Nella sua disarmante solitudine fino all’ultimo istante, si svela la fragilità di tutti i rapporti faticosamente intrecciati e di tutta una vita votata al recupero di ciò che non c’è più.

Ma perché Gatsby ci è così familiare? Forse perché quella patina di progresso che avvolgeva gli anni 20 americani, tra grattacieli in costruzione e macchine che sfrecciavano sempre più rapide, non è poi così diversa da quella che, oggi, ci spinge con sempre più prepotenza all’esasperazione della tecnologia. Come Gatsby, che cercando l’amore e la luce verde del pontile di Daisy cercava anche la realizzazione personale del guadagno come condizione imprescindibile per acquisire la felicità, siamo figli di un sogno americano incompiuto, strenuamente convinti di essere privilegiati e immuni alla disgregazione del tempo. Ma non ci rendiamo conto che, nel tendere sempre più avanti, perdiamo di vista i riferimenti, e aneliamo, senza speranza, a ritornare alla riva da cui siamo salpati. Sconosciuti gli uni agli altri come gli invitati di Gatsby, non più alle feste ma davanti ad un display, cerchiamo di non perdere terreno, ma nel fare questo vendiamo inevitabilmente la nostra anima. Come Gatsby, aspiranti al paradiso della felicità, finiamo prigionieri di una dannazione terrena all’infelicità.

Come magistralmente scrive in conclusione del romanzo Fitzgerald, in questa stasi tra il perderci nell’avanzamento e il dissiparsi dei momenti felici legati ai ricordi irrecuperabili, nel non sapere che ciò che inseguiamo davanti a noi ci è già irrimediabilmente alle spalle, “continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.