Secondo una mentalità che fa dell’adesione a degli standard il suo ideale, oggi si auspica che ogni comportamento, specie se problematico rispetto alle attese, possa essere controllato e trattato da una normatività, spesso occultata dietro proposte di identificazioni e immagini prestigiose, nascoste tra le pieghe di un permissivismo senza regole apparenti che non siano il consumo e le sue leggi. Il benessere individuale si assicura socialmente coniugandosi con la tranquillità sociale.
Questo schematismo è al fondo segregativo e investe – pur in stili diversi da quello classico del manicomio – anche il campo delle cure psichiche, nell’insieme di trattamenti che affrontano disagi soggettivi di varia manifestazione, la cui causa è da sempre difficilmente riducibile a cause organiche. Un catalogo oggettivante di queste manifestazioni, in uso nella moderna psichiatria, per una diagnostica formulata su basi statistiche, non risponde alla domanda di senso che il sintomo sottende. Il testo di Maria Teresa Maiocchi (La svolta di Freud e l’attualità della clinica, Franco Angeli 2019) opera un ritorno alle condizioni per le quali i disagi e la loro indecifrabile bizzarria hanno preso la via di un possibile interrogativo di senso piuttosto che della catalogazione e della semplice sedazione.
Ecco perché oggi Freud è interessante, come e più di ieri, come e più del momento esplosivo della sua scoperta e delle sue immediate conseguenze, genesi dell’insieme delle pratiche della consultazione fondata sulla parola, sul dire. Per questo c’è un interesse di secondo grado a riprendere il testo di Freud e coglierne l’attualità e la capacità di anticipazione rispetto a nodi clinici e sociali con cui oggi siamo alle prese. Pensiamo al carteggio con Einstein Perché la guerra? e al realismo, spesso valutato come “pessimismo”, con cui Freud considera un’inclinazione aggressiva strutturale legata al gruppo e alla convivenza sociale.
Da che cosa dunque si è lasciato inizialmente sorprendere Freud alle prese, come medico, con organi ribelli, non inclini a lasciarsi addomesticare da una medicina incapace di ascoltare il malessere? Il corpo che le giovani malate ostentano – le isteriche che popolano gli studi privati degli psichiatri o i manicomi, a Parigi come a Vienna – è un corpo che parla sorprendentemente di relazioni, di affetti, di desideri… all’insaputa del soggetto stesso.
La questione freudiana si pone a partire da un dare parola al soggetto, a partire da un ascolto tanto umano quanto scientificamente preoccupato del reperimento di una causalità specifica: ma quale, se la sua logica affonda in una dimensione che non è presente alla coscienza, in-conscia, non articolabile se non per le vie traverse del discorso singolare del paziente? Come farne, di questo groviglio, una scienza?
Sappiamo bene quanto oggi l’invenzione dell’inconscio – e del ruolo che esso gioca nell’impostazione della relazionalità in cui come soggetti siamo immersi – sia generalmente dimenticata, violentemente contrastata e ridimensionata nel suo metodo e nella sua portata. I libri neri della psicoanalisi si scrivono anche nei luoghi della formazione clinica, le università in particolare, anticipati del resto da quell’idea di “resistenza” che Freud scopre essere coassiale alla psicoanalisi.
Tuttavia oggi c’è di qualcosa di più radicale in questo rifiuto, poiché la pratica che Freud ha messo in causa è una pratica che non riposa sulla gestione ed il fine di un semplice benessere dell’individuo. E anzi, in un certo senso è l’idea stessa di benessere che Freud mette in questione. L’inventore della psicoanalisi contrappone a benessere termini come: desiderio, mancanza, perdita, singolarità irriducibile del sintomo, termine quest’ultimo che estrae dalla nozione psichiatrico-medica per consegnarlo alla dimensione irriducibile della storia simbolica del soggetto e delle sue relazioni.
Se prevale la resistenza a una nozione di cura che impegna il soggetto, come anche l’operatore, in una dinamica relazionale che coinvolge in modi diversi il loro essere di desiderio, la figura dell’operatore non può che ridursi a una mera tecnica di trattamento di dati statistici, protocolli descrittivi e prescrizioni farmacologiche che inseriscono il malessere nel quadro più generale della macchina sociale, ma senza interrogare la portata di senso di questo malessere e la sua portata di verità per il soggetto.
Maria Teresa Maiocchi, psicoanalista e docente di psicologia dinamica nell’Università Cattolica di Milano, ripropone in questa chiave l’interesse e l’urgenza di un ritorno a Freud, punto cruciale dell’apporto di Jacques Lacan in opposizione alla degradazione della teoria tipica degli anni 40-50, preoccupata principalmente del versante professionale-terapeutico della pratica psicoanalitica, con il suo – quasi irritante oggi – setting del divano.
Questo recente testo indica che un ritorno alla scommessa etica del testo freudiano e alla sua attenzione clinica al soggetto (e non agli standard socialmente imposti) rimane un necessario punto di ri-partenza per la formazione dell’operatore nella clinica complessa dell’oggi, lontana dai setting tradizionali, in cui i concetti freudiani, letti nell’ottica lacaniana, mostrano tutta la forza della loro capacità di anticipazione e di risveglio. Il senso censurato di una posizione dell’inconscio operata dalla scoperta freudiana non consiste nel puntare lo sguardo, nel disvelare luoghi tenebrosi del soggetto, ma nel rendere accessibile il funzionamento di un desiderio di cui l’io non ha consapevolezza e che tuttavia opera. Si tratta quindi di renderlo pienamente risorsa soggettiva, che da lì può rintracciare qualcosa della propria identità più profonda, la cifra della sua libertà. Il libro di Maria Teresa Maiocchi accompagna il lettore nel mettere a fuoco proprio questo merito di Freud, che ha portato questa scoperta, frutto della sua pratica clinica, nel cerchio e nel linguaggio della scienza occidentale, provocandola nei suoi limiti e ponendo nuovi quesiti.
La lettura operata dall’autrice, grazie all’insegnamento di Jacques Lacan, aiuta a ripercorrere questioni di metodo nel sapere della psicoanalisi non senza il confronto con il sapere “universitario” e l’epistemologia che lo sostiene. Viene offerta una strumentazione per comprendere, al di là delle ricorrenti censure, come nella scientificità inaugurata da Freud il soggetto possa fare esperienza della portata strutturante delle relazioni in cui si costituiscono le sue radici e la sua propria singolarità.
Quale sapere è qui in gioco? Il rigore della sua inevitabile umiltà, inter urinas et faeces nascimur, si congiunge alla pretesa – nella cura – di cogliere un fondo di impossibile, un limite del dire, che per sua natura sfugge ad un possesso conoscitivo e morale da parte di un soggetto. E che va dritto all’ethos che anima la sua esistenza. Il testo si pone infatti al rovescio di una riduzione della psicoanalisi a una nuova forma di psicologia spicciola e del buon senso, impotente davanti alla riduzione del soggetto a ”puro consumatore”, fuori legame.
Forse un “ritorno a Freud” può riavvistare il senso antico della “parola” nella cultura dell’Occidente: una parola legata dalla sua origine al desiderio. Cioè una bene-dizione.
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La svolta di Freud e l’attulità della clinica (Franco Angeli 2018) sarà presentato venerdì 24 maggio ore 21 alla Casa della Psicologia, Piazza Castello 2, Milano. Per informazioni e iscrizioni