Il finale della seconda scena del quinto atto del Dottor Faust di Christopher Marlowe sviluppa il disperato, estremo monologo del protagonista. Medico, giurista, teologo, campione accademico e intellettuale multiforme, mago dai poteri insuperabili, Faust si ritrova infine solo, di fronte all’ultima ora della sua esistenza: il tempo precipita verso l’esaurimento, scandito dai rintocchi di un orologio lontano e la coscienza di Faust si inabissa nella certezza della dannazione.
Il patto sancito con Satana e vergato col sangue gli aveva garantito ogni potere sulla terra – la conoscenza perfetta e la soddisfazione dei piaceri – per la durata di ventiquattro anni, al costo dell’anima. La fine è giunta, cosicché nel ritmo rotto del suo verso l’autore trascina chi legge dentro un vortice di pathos, sempre più in profondità, lungo i meandri oscuri della disperazione, fino all’ultimo precipizio.
“Dove sei, Faust?” – si domanda sconcertato il protagonista, riproponendo a sé stesso l’angosciosa interrogazione biblica, la prima domanda che Dio rivolge all’uomo nel Giardino, dopo il peccato: Adamo, dove sei? E lo spunto diventa come una crepa nella sua anima, che si approfondisce nello sviluppo del monologo, di grado in grado sprofondando, fino a risolversi nell’ultimo grido: “Suona! Suona! Adesso, corpo, mùtati in aria, o Lucifero ti trascinerà all’inferno. Oh, anima, càmbiati in piccole gocce d’acqua, e sprofonda nell’oceano, perché non ti trovino. Inferno orrendo, non ti aprire, non venire, Lucifero! […]”.
Ma l’inferno si spalanca per reclamare il suo diritto, per ingoiare Faust. Ecco dunque dov’è l’uomo, come appare dall’ultima immagine che la scena suggerisce: è precipitato nella dannazione.
D’altra parte, la tensione del finale della tragedia non potrebbe essere così straziante se non agisse in direzione opposta al movimento verso il basso un’altra spinta, che di continuo sembra trarre Faust verso un’impossibile – e tanto più agognata – redenzione. È precisamente la dialettica tra il sentimento della rovina e la speranza di un’alternativa (sempre annegata dall’ondata nera) a conferire al monologo un andamento fatale ma irrisolto, altalenante, come se la decisione già fissata nel patto non fosse in realtà definitiva e dovesse ancora resistere alla prova del tempo e della libertà individuale, fino all’acme del finale, nel quale il destino stesso rompe gli indugi, ed è in scena.
E così si raggiunge uno dei nodi dell’intero dramma: Faust, in definitiva, si pente della sua scelta? Potrebbe Dio abbandonarlo alla dannazione, quando si fosse pentito? O forse, Faust non si è mai pentito e nella sua disperazione – fin nel terrore che pure lo fa urlare – ripeterebbe ogni passo e confermerebbe ogni decisione del suo cammino? Ma Faust non è uno sprovveduto: conosce la sorte incontro alla quale il suo accanimento nel rifiuto lo trascina: Dio e lo stesso Satana gli hanno mostrato i traguardi dell’inferno e del paradiso. Perché quindi non ravvedersi, perché accettare in piena consapevolezza la perdizione eterna?
Una domanda più generale ha però maggior valore euristico: Faust nella condizione in cui è all’ora estrema del dramma e della vita, potrebbe ancora pentirsi? È impostando in questi termini la questione, che si apre un’interpretazione dell’oggetto stesso della tragedia.
Per risolvere l’enigma intorno al possibile pentimento di Faust bisognerebbe forse addentrarsi in una discussione dottrinale e indagare gli anni degli studi teologici di Marlowe, a Cambridge, e scoprire quale posizione assumesse, in una stagione di controverso fermento, rispetto alla Chiesa cattolica e alla nuova Chiesa anglicana, rispetto a Lutero e a Calvino, alla dialettica tra libero e servo arbitrio, ad Erasmo, alla giustificazione sola fide, al difficile problema della predestinazione.
Limitando la discussione agli spunti che offre la tragedia – nella parzialità di una prospettiva che trascuri i rilievi teologici e dottrinali per concentrarsi sul puro sviluppo degli eventi, così come Marlowe l’ha offerto – si dirà che il locus del dramma e dell’esistenza di Faust è tutto nel patto con Satana. Quell’evento capitale, descritto lungo il secondo atto, diventa il momento decisivo del destino del protagonista – l’istante in cui tutti i problemi teorici sopra citati divengono forma e visione sulla scena, in una poesia dalla potenza travolgente. Di che natura è questo accordo? I termini del patto sono chiari e, nella loro chiarezza, paradossali: il dottore promette a Satana la sua anima e ottiene in cambio di tenere al suo servizio per ventiquattro anni un demone minore – Mefistofele – che dovrà soddisfare ogni sua richiesta e dischiudergli l’accesso ad ogni conoscenza ed esperienza.
Il risvolto paradossale, si è detto, risalta da subito. Qualcosa di assurdo è in questo scambio, in questo contratto tra mortale e immortale, tra uomo e puro spirito: quale abbaglio potrebbe indurre a equiparare ventiquattro anni all’eternità, ad accettare di guadagnare il mondo – secondo il richiamo evangelico – perdendo sé stessi? Nell’istante stesso dell’assenso alle condizioni dell’accordo, la partita di Faust è persa. Il suo destino è già fissato: non occorre attendere il finale della tragedia. Da quel momento in avanti, l’inferno è certo – e si realizzerà negli anni, prima di divenire dimensione definitiva allo scadere del tempo fissato, dentro la tortura psicologica, l’angoscia e la disperazione, che matura nella mente del protagonista come una pianta assassina.
Nella scena del contratto, Marlowe ha rappresentato qualcosa di non umano, qualcosa di definitivo. Vivendo nel tempo e nella libertà gli uomini di volta in volta compiono la loro scelta, per Dio o per Satana, senza che la loro decisione possa mai definirsi come irreversibile e totale, fino alla fine. Faust, quando scende a patti con lo spirito del male, varca la soglia dell’umanità, entra – lui, con la sua natura strutturalmente temporale – nella dimensione dell’eterno. Il suo è un gesto impossibile per l’uomo: in un solo istante gioca l’intero potenziale della sua libertà in un’unica scelta irrevocabile. In sostanza ripete, essendo uomo, la mossa degli angeli, i quali in quanto spiriti puri al momento della caduta avrebbero dovuto schierarsi per sempre per il bene o per il male, con Dio o con Satana.
In questo sta la natura contraddittoria dell’iniziativa di Faust: da mortale si equipara all’immortale, trascende la parzialità e la transitorietà che condiziona ogni scelta umana, e – replicando la storia di Lucifero – danna sé stesso, con un unico atto puro e irrevocabile della libertà. Per questo Faust non si può pentire. L’atto puro e definitivo dell’accordo sancito con il suo sangue è più che un gesto umano, non è qualcosa che si possa ridiscutere o disfare: quell’accordo lo trascina nella dimensione degli spiriti e dell’eterno, che non ammette conversione. Per lui, da allora, non esiste più il cambiamento.
(1 – continua)