Qual è la via del vento, pubblicato dalla piccola e raffinata editrice e/o, è un delizioso romanzo di un’avvocato milanese, membro per meriti insigni della Corte di Cassazione. Daniela Dawan è scrittrice per passione, non per mestiere, e ha tracciato con una narrazione avvincente, con uno stile elegante, mai sopra le righe la vicenda trascurata, rimossa dalla memoria comune del pogrom subito dagli ebrei in Libia, in anni non così lontani.
Era il ’67, Israele si lanciava nella spericolata e vittoriosa guerra dei sei giorni, scatenando la rabbia degli islamici radicali, in un paese, la Libia, ricco, ma instabile politicamente. In pochi giorni, attentati, roghi, incendi di abitazioni, sgozzamenti, terrore. Tutti gli ebrei libici scampati alla vendetta sono costretti a fuggire, come la famiglia di Micol, che con gli occhi dei suoi dieci anni ricorda e racconta, intrecciando le storie e delineando con finezza i caratteri dei genitori, dei nonni, così ben inseriti in quella terra rossa che sprigiona fascino per la sua vivacità di culture, colori, sapori, ed era sembrata, dopo gli anni terribili della Shoah, una casa sicura, l’illusione di una patria.
Il terrore, l’isolamento di tanti che erano sembrati amici, l’arrivo in un’Italia in corsa frenetica verso il boom, che non aveva voglia di occuparsi di profughi, che non aveva ancora fatto i conti con l’abbandono dei fratelli ebrei alla desolazione e al genocidio, e che vedeva nell’astro nascente del colonnello Gheddafi un alleato possibile, perlomeno per fare affari. Micol cresce con il segno di una diversità, con l’ombra di una tristezza atavica, che ha l’esilio come destino. Micol che non capisce i riti, le cerimonie, che uniscono la sua gente nella devozione a un Dio che sembra non proteggerli. Micol sa tuttavia che quegli shabbat celebrati con fedeltà, quelle preghiere la rendono parte di un popolo, che non può tradire. La domanda sottesa del perché di una erranza millenaria sottende ogni pagina: perché a Dio, perché agli uomini.
Per decenni Micol porta nel cuore il dolore della sua famiglia, che non rivedrà più quel mare, quella casa, e la tomba di una figlia morta troppo presto, di cui aleggia l’assenza e incombe sulla fragilità della sorella, chiamata a un perenne confronto, a scontare la sua sopravvivenza. Piccole storie dentro la grande Storia che la trascina, insensibile. Una storia che sembra accanirsi in quel pezzo d’Africa sempre conteso, sempre ferito, da secoli, per l’interesse cinico di certa Europa, per l’irriducibile fanatismo di una religione che esclude e condanna chiunque sia tacciato come infedele.
Il terrorismo islamista non nasce con l’11 settembre. C’è un germe che cova sempre, in chi si ostina a prendere alla lettera i testi sacri, in chi pretende di uniformare lo stato alla propria fede, in ci crede che la guerra santifichi. Un racconto che colma un vuoto narrativo, un vuoto nella coscienza italiana, dato che la maggior parte degli eroi libici erano proprio italiani, causa le nostre sventurate avventure coloniali; una narrazione delicata, che non conosce toni sentimentali e neppure drammatici, nonostante abbia l’andamento dell’epica. Consola che a lavorare per la nostra traballante giustizia ci sia un animo così delicato e gentile, che non alimenta rancori, che sa distinguere i giusti e gli ingiusti senza il filtro pericoloso dell’ideologia.