Caro direttore,
si sta concludendo il centesimo anno dalla fine della guerra dichiarata il 28 luglio 1914 in seguito all’assassinio del figlio-erede dell’imperatore degli Asburgo a Sarajevo (28 giugno). Una guerra definita “grande” rispetto alle precedenti, poiché guerra totale: di tutto e di tutti (per la prima volta ad esempio con aerei e sottomarini) e vasta, da coinvolgere anche 61mila giovani soldati canadesi uccisi tra più di 10 milioni di altri militari. Per noi italiani il nemico fu per 150 anni l’Austria-Ungheria: da quando cioè, nel 1797, molti erano stati venduti ad essa da invasori francesi, esportatori della Rivoluzione dell’unité-fraternité-egalité (tra loro, non con noi!): guidati dall’esaltato stratega Napoleone Bonaparte aggredirono, derubarono e distrussero la debole millenaria Repubblica di Venezia ed il Vescovado di Trento tra altri italici territori.
Ci vollero tutte le guerre successive per recuperare gli stracci del proprio passato: le tre guerre di indipendenza, la Grande guerra, e una “seconda guerra mondiale”, ancora più crudele e vasta della prima, col doppio di vittime complessive (da 26 a oltre 50 milioni, inclusi i giapponesi colpiti da due bombe atomiche statunitensi). Noi italici post-Bonaparte dovemmo ridefinire a fatica il Nord-Est: l’annessione della Lombardia nel 1859, del Veneto nel 1866, di Trento e Friuli nel 1918, di Trieste e connessi dal 1945 in poi. Un macello di martiri: dai rivoltosi delle 5 giornate di Milano ai patrioti veneziani, ai lottatori alpini, agli irredentisti trentini, fino agli infoibati istriani solo per additarne alcuni. E tutto questo poiché i cattolicissimi austriaci nel Congresso restauratore in Vienna del 1815 al post-terremoto geopolitico napoleonico, ristabilirono tutto tranne la Repubblica di Venezia, la Reggenza episcopale trentina e quant’altro di italico precedente, con l’assenso di tutti gli altri monarchi, papato incluso.
Sul sopra citato anniversario, il triestino Claudio Magris ricorda: “Ogni paese pensava di dare una piccola bella lezione al nemico vicino, ricavandone in breve tempo vantaggi territoriali e d’altro genere… ma nessuno riusciva ad immaginare che la guerra potesse essere così tremenda!”. E nessuno poteva immaginare che vinta la guerra si perdesse la pace. A conferma infatti del monito di Papa Benedetto XV, che nella sua nota del 1° agosto 1917, la definiva “inutile strage” (spingendo a finire il conflitto), quella guerra si dimostrò invece doppiamente incapace, primo, di evitare, anzitutto, tante vittime innocenti, e, secondo, di non divenire premessa inconscia addirittura di una ulteriore immane tragedia futura. Quanto realisticamente un falegname nel vicino oriente aveva profetizzato duemila anni fa: “Chi di spada ferisce, di spada perisce” (Mt 26,52). Ora la pace non è più un’opzione ma un’urgente necessità: la necessità di una “civiltà dell’amore”. Una “civiltà misteriosa” e sconosciuta ai più, che se da una parte ci attrae, dall’altra parte anche ci atterrisce poiché, occorre ammetterlo onestamente, come stragrande maggioranza occidentale rimette in questione il passato/presente di quasi tutto e tutti.
Nella memoria di questi anni l’Italia, entrata nel conflitto un anno dopo, 24 maggio 1915, ha approfondito ulteriormente la coscienza del suo passato qui a Padova, divenuta “capitale al fronte” dopo Caporetto e “Città della pace” con l’armistizio, firmato il 3 novembre 1918 nell’attuale periferia a Villa Giusti. E cento anni dopo, tutto il Veneto si è voluto dichiarare “Terra di pace” con le firme il 3 novembre 2018 nello stesso luogo, a Villa Giusti, del ministro per gli Affari regionali Erika Stefani, del presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti, del sindaco di Padova Sergio Giordani, del vescovo di Padova mons. Claudio Cipolla, del rettore dell’Università, prof. Rosario Rizzuto (studenti e professori di medicina oltre ai medici negli ospedali e molti altri e altre, trasformarono allora la città in un super ospedale da campo).
Il Veneto ha pagato il prezzo di quella pace con il più alto numero di vittime di tutte le regioni italiane: solo qui si è combattuto dal primo all’ultimo giorno; ma tuttora intanto nel Veneto coabita parte di un esercito straniero; esso conserva, anzi, ha allargato le sue basi (statunitensi), segno della tensione e della spartizione passato-presente che ancora guidano il nostro presente-futuro. Non pochi hanno notato la collaborazione del popolo e dei giovani militari che, dall’intera penisola ed isole, hanno fraternizzato tra loro per la prima volta grazie all’unico esercito nella grande guerra, quasi a lodare l’unica patria che ritrovava se stessa. Ma alla fine dei due conflitti nel referendum del 1946 rivolto per la prima volta a tutti i cittadini dai 21 anni in su dei due sessi, e con l’altissima affluenza di quasi il 90 per cento dei votanti, si sono svelati due popoli diversi: i favorevoli alla monarchia stravinsero al centro-sud (Lazio-Abruzzo in giù: a Napoli il 79 per cento), mentre al centro-nord stravinse la repubblica (Umbria-Toscana-Marche; a Trento l’85 per cento): la differenza fu omogeneizzata in una media astratta fatta a tavolino (54,3 per cento sì, 45,7 per cento no). Una leadership inadeguata quindi esiliò all’estero il re rifugiato in Puglia, ed “impose” anche al sud la repubblica del nord: una occasione di rispetto non solo persa, ma resa perversa passando da “guerre di armi” a “guerre di nervi”: ove la verità non ama la giustizia, infatti, la realtà si avvelena in sfiducia e ipocrisia.