Giacomo Leopardi nei suoi viaggi portava sempre con sé una cassetta contenente dei fogli zeppi di appunti, meditazioni e brevi testi diaristici (i quali finirono per raggiungere il numero strabiliante di oltre cinquemila pagine manoscritte) destinati a diventare col tempo quell’opera singolare, tra il saggio filosofico e la prosa riflessiva, nota come lo Zibaldone di pensieri, che ‒ dopo la morte del suo autore ‒ ha conosciuto svariate edizioni, a partire dalla prima in sette volumi, curata da Giosuè Carducci (1898-1900).
Tuttavia lo Zibaldone per circa un secolo è apparso agli occhi dei lettori una sorta d’immenso coacervo asistematico, costituito da frammenti, aforismi e annotazioni disparate, finendo insomma col ridursi a una gran mole di scritti senza altra finalità e organicità se non quella d’esprimersi intorno a ciò che colpiva l’interesse momentaneo di Leopardi. Recentemente però Fabiana Cacciapuoti, a seguito di un meticoloso e puntuale lavoro critico-filologico, è riuscita a riorganizzare in un volume unico quest’opera colossale (oggi ripubblicata da Feltrinelli), scandendola ‒ a seguito delle indicazioni suggerite dallo stesso autore nelle centinaia di schede che corredano il testo ‒ in una serie di sei “trattati” o percorsi tematici, quali il “Trattato delle passioni”, il “Manuale di filosofia pratica”, gli scritti intitolati: “Della natura degli uomini e delle cose”, nonché l’ampia “Teorica delle arti, lettere ec.” (suddivisa in una Parte speculativa e in una cosiddetta Parte pratica), cui segue la sezione conclusiva intitolata alle “Memorie della mia vita”.
Così, riaggregando e riordinando i materiali leopardiani a seconda degli argomenti o temi affrontati, la Cacciapuoti ci ha permesso di accostarci allo Zibaldone tramite un approccio inedito che, proprio grazie a tale mutata chiave di lettura, ne favorirà senza dubbio una maggior comprensione/fruizione. Secondo la curatrice del volume, due sono i metodi basilari seguiti dal Nostro in questa peculiarissima prosa filosofica: la “derivazione genetica” (molti brani sono originati da pensieri/pareri precedenti, in un’intermittente gemmazione/ricogitazione), e un sistematico ricorso a “rinvii” o “richiami” attraverso continui collegamenti, rimandi e riprese.
Ciò che comunque emerge con assoluta evidenza sin dalla prime pagine è la figura esemplare del Leopardi moralista nonché anatomista dell’animo: proprio e altrui. Il poeta filosofo inizia dunque col perlustrare la variegata geografia delle umane passioni fattosi persuaso che alla base di ogni pathos ‒ nel duplice senso del termine, che può indicare appunto sofferenza ma pure felice tensione erotica ‒ vi sia un inestinguibile anelito alla felicità, destinato però a non raggiungerla mai a causa dell’umana finitudine. Eppure per Leopardi rimane sempre in noi questa paradossale fame di infinito, che risulta insaziabile.
Parallelamente l’autore prende in esame l’uomo moderno che, a differenza di quello antico, ha preso le distanze dalla natura affidandosi in modo eccessivo alla ragione che è – scrive il grande recanatese – “nemica d’ogni grandezza” e “nemica della natura”; la quale risulta “grande”, mentre “la ragione è piccola” e vorrebbe invece “geometrizzare tutta la vita” facendoci scordare l’ambito poetico/immaginativo. Questo il peccato di hybris o tracotanza in cui è caduta la modernità, la quale con la sua cultura all’insegna di un razionalismo esasperato ci ha allontanati da quel mondo naturale che gli antichi abitavano senza pretesa di evadere dal suo ambito.
Ma allora vi è un modo per riconciliarsi con la natura, non vedendola più solo come matrigna insensibile alla sorte dei suoi figli? È possibile superare l’alienante senso del tragico o, in altri termini, la dolorosa consapevolezza leopardiana di non poter trovare uno scopo, un perché, un senso all’esistenza? Quindi: come aver cura di sé (e del mondo) avendo constatato che soluzioni/salvezze definitive non possono mai darsi se non come illusorie e vane speranze?
Ovviamente e coerentemente con il suo pensiero, il poeta-filosofo recanatese non fornisce certo risposte esaustive a tali domande; e se un’indicazione si può cogliere dai suoi scritti, credo sia opportuno fare riferimento a quello che è il testamento al contempo spirituale e poetico del Nostro, cioè la mirabile composizione in versi dal titolo La ginestra, o il fiore del deserto, sull’umile pianta (“ma più saggia” e “tanto meno inferma dell’uom”) che fiorisce e ingentilisce le lande desolate dalle eruzioni vulcaniche mentre accoglie serenamente il proprio destino, ossia quello di vivere accettando precarietà e vulnerabilità senza temere di venir presto o tardi investita dalla lava del Vesuvio, che pure fatalmente finirà col distruggerla.