La regina di Saba, regina d’Etiopia, avendo sentito raccontare della grande saggezza di Salomone, decise di fargli visita a Gerusalemme: in seguito all’incontro col re d’Israele, ella si convinse della bontà della sua fede e l’accolse, abbandonando i culti praticati ad Aksum (Etiopia settentrionale, regione del Tigrè). Dopo aver lasciato Gerusalemme ed essere tornata in patria, diede alla luce il figlio concepito con Salomone, che ebbe il nome di Menelik (Menilek), “figlio di re”. Quando il fanciullo fu cresciuto in forza e sapienza, sorse in lui il desiderio di conoscere il padre e partì a sua volta alla volta di Gerusalemme, dove tutti rimasero meravigliati dalla straordinaria somiglianza tra Salomone e il giovane etiope. Solo a malincuore Salomone acconsentì poi a lasciar tornare Menelik in patria, dopo averlo fatto ungere re d’Etiopia e aver stabilito che un nutrito gruppo di israeliti lo avrebbe accompagnato, tra i quali molti giovani provenienti da famiglie illustri. Poco prima di mettersi in viaggio, Menelik, consigliato da alcuni giovani appartenenti alle stirpi sacerdotali di Israele e per diretto intervento dell’arcangelo Michele, trafugò l’Arca dell’alleanza con le Tavole della legge custodita nel tempio di Gerusalemme e la portò con sé in Etiopia. In seguito gli etiopi abbracciarono la fede di Israele e Menelik salì al trono quale primo sovrano della dinastia salomonica. Quando i tempi furono maturi, gli etiopi, fedeli al Dio d’Israele e affratellati al popolo eletto, poterono riconoscere in Gesù di Nazareth il Signore, a partire dal battesimo dell’eunuco etiope della regina Candace, amministrato dal diacono Filippo sulla via da Gerusalemme a Gaza e narrato negli Atti degli Apostoli (At 8, 26-39).
Fin qui il racconto del Kebra nagast, “Gloria dei re”, allo stesso tempo mito fondatore della dinastia salomonica che avrebbe regnato sull’Etiopia fino all’età contemporanea ed epopea nazionale tesa a vedere nel popolo etiope un nuovo Israele. Da qui anche – almeno secondo l’interpretazione tradizionale che ancora oggi è alla base dell’autocoscienza ecclesiale etiope – gli influssi ebraici e veterotestamentari presenti nel culto, come pure la presenza da epoca immemorabile di una misteriosa comunità autoctona giudaizzante, quella dei falasha. La stessa Arca dell’alleanza sarebbe stata fino ad oggi gelosamente custodita nella chiesa di Nostra Signora di Sion ad Aksum, per la sua sacralità da sempre celata agli sguardi di tutti (compresi l’imperatore e il patriarca) e affidata alla custodia di un monaco guardiano nominato a vita.
L’antico racconto è sicuramente molto suggestivo: non è però questa la sede per entrare nel merito del suo ipotetico valore storico. Ciò che si può dire con sicurezza è che nel corso del IV secolo il re dell’antica Aksum, Ezana, abbracciò la fede cristiana in seguito alla predicazione di san Frumenzio, un siro di cultura greca. Il regno di Aksum era al centro di costanti contatti con il mondo mediterraneo grazie alla città portuale di Adulis, sul Mar Rosso (nell’attuale Eritrea) nella quale la presenza cristiana fu probabilmente molto precoce. Peraltro, l’importanza di Adulis nel mondo tardo-antico va sempre meglio delineandosi anche grazie a una nuova campagna di scavi, avviata nel 2011 con il coordinamento di Alfredo e Angelo Castiglioni e sotto la direzione scientifica di Serena Massa, e tuttora in corso. Come narra Rufino di Aquileia, Frumenzio, dopo essersi guadagnato la fiducia e la stima della famiglia reale ed aver posto le basi della cristianità, si recò ad Alessandria, dove il patriarca sant’Atanasio – strenuo avversario dell’arianesimo e autore della celebre Vita di Antonio – lo consacrò vescovo. Frumenzio fu così il primo abuna, il primate, della nascente Chiesa etiope, la cui nomina e consacrazione sarebbero rimaste per secoli un diritto del patriarca di Alessandria.
Quando la Chiesa copta, con quella armena e quella siriaca, rifiutò di aderire alle definizioni cristologiche del concilio di Calcedonia (451), anche i cristiani etiopi intrapresero necessariamente la via della separazione da Roma e Costantinopoli. Ciò non significa che copti, armeni, siri ed etiopi possano essere definiti “monofisiti”: essi rimasero legati alle precedenti definizioni cristologiche (in particolare quella di san Cirillo di Alessandria) e non approvarono la dottrina delle due nature di Cristo più che altro, com’è emerso a distanza di secoli, per incomprensioni di carattere linguistico e terminologico, a cui si aggiungevano anche le tensioni politiche con Costantinopoli.
Nel V secolo un decisivo contributo alla cristianizzazione del Paese fu recato da monaci missionari, probabilmente monaci anti-calcedonesi di origine siriaca che fuggivano dalla persecuzione delle autorità bizantine, collettivamente ricordati come “i nove santi”. A quest’epoca risale la fondazione dell’importante monastero di Dabra Damo, come anche l’inizio della letteratura teologica e spirituale in lingua ge’ez, l’etiopico classico, lingua liturgica ed ecclesiastica. Una nuova fase di espansione monastica ebbe luogo con il secolo XIII, l’epoca di uno dei santi etiopici più venerati, san Takla Haymanot, fondatore del monastero di Dabra Libanos.
Nel corso dei secoli il cristianesimo divenne tutt’uno con l’identità degli etiopi, che ne fecero sempre più un elemento di distinzione rispetto alle popolazioni che li circondavano, in prevalenza musulmane e animiste, mentre l’imperatore, al quale era attribuito il titolo di negusa negast (“re dei re”, negus neghesti nell’imprecisa consuetudine italiana) e di “leone di Giuda”, esercitava la sua autorità in sinfonia con la Chiesa locale, della quale era il capo effettivo, avendo il primate di provenienza egiziana soprattutto una funzione di carattere rituale. Dopo aver ricevuto nella sua prima fase influssi greci, siriaci e copti, la Chiesa etiope era andata sviluppandosi su basi fortemente particolaristiche: i contatti con l’Occidente erano stati a lungo quasi inesistenti, e in Europa l’Etiopia veniva identificata con il mitico regno del Prete Gianni. Nonostante l’esiguità delle relazioni, gli etiopi, in seguito all’invito rivolto da papa Eugenio IV al negus, inviarono una propria legazione al concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439).
In età moderna i sovrani d’Etiopia si mostrarono interessati ad avere relazioni diplomatiche con gli Stati cristiani dell’Europa occidentale, dai quali speravano di ottenere un sostegno in funzione antiislamica: in effetti, fu proprio un aiuto esterno che permise all’Etiopia di superare con successo una delle sue più gravi crisi storiche. Tra il 1529 e il 1543 l’altopiano etiopico fu devastato dalle armate musulmane del confinante sultanato di Adal, guidate dal famigerato Ahmad Graň e sostenute militarmente dall’impero ottomano: l’esercito invasore, che distruggeva sistematicamente chiese e monasteri e massacrava quanti non si sottomettevano all’islam, giunse a conquistare quasi tutto il Paese, nonostante la disperata resistenza degli etiopi.
(1- continua)