Attiva, intraprendente e con un progetto chiaro: l’Associazione culturale “Salvatore Incorpora” promuove, nella cittadina siciliana di Linguaglossa, eventi mirati, a vantaggio di un preciso patrimonio figurativo, quello appunto dello scultore e pittore a cui è intitolata. Ma ogni volta, lo fa con proiezione in un orizzonte ampio, che include intanto i maestri del Novecento, ma può coinvolgere anche i classici, i grandi esponenti della tradizione italiana.
È il caso della mostra “Simone Martini incontra Salvatore Incorpora. Il racconto del sacro”, presso il Museo Francesco Messina (che ora è anche Esposizione permanente Salvatore Incorpora) e aperta sino al 31 marzo prossimo. A tagliare il nastro, nel dicembre scorso, c’erano lo storico dell’arte Antonio D’Amico e Anna Maria Guiducci, past-direttore della Pinacoteca Nazionale di Siena. Perché la mostra muove appunto da un senese insigne, Simone Martini, dalla sua “Vergine col Bambino” dei primi anni del Trecento. Da qui si dipana un filo che passa poi per Andrea Di Bartolo e il suo “Trittico della Natività” (risalente agli ultimi anni del XIV secolo) e ancora per un artista della Famiglia dei Bassano (forse Leandro), autore a fine Cinquecento di una “Adorazione dei pastori”. Sbocco conclusivo, le opere di Incorpora: i dipinti e le sculture sul tema della Natività, nonché i famosi presepi scolpiti da un gesto minuzioso, certosino, che moltiplica e assiepa una popolazione animatissima di figure in miniatura.
Il dialogo fra le istituzioni – da un lato la Pinacoteca di Siena, dall’altro l’Associazione linguaglossese – ha reso possibile quello fra le opere, per quanto a grande distanza temporale l’una dall’altra. Collocate nello stesso ambiente, esse prendono a parlarsi, e in quell’interlocuzione ciascuna arricchisce la propria identità. Il che può accadere perché una relazione in potenza già sussiste. Ma va scoperta, enucleata, messa in opportuna luce, e una mostra è l’occasione adeguata per farlo, beninteso se diviene, come in questo caso, gesto critico, e non appena rito celebrativo.
A pensarci, il tema in parola è davvero rilevante, con le sue implicazioni strategiche. “Qui, intorno all’icona-chiave del nostro evo, quella di madre e figlio, si gioca una partita decisiva”: lo ha osservato Massimo Cacciari nel suo felice intervento sulla figura della Vergine col bambino e sul suo ruolo nella civiltà europea (Generare Dio, Il Mulino, 2017). Mediante questa immagine, si è pensata, dal Medioevo in poi, la relazione tra l’uomo e Dio. Le varie realizzazioni figurative, o almeno quelle più tipiche, “pensano l’immagine come immagine reale”. Qualcosa di totalmente diverso dal mito; che attiva, specie nella sua interpretazione gnostica, solo ombre imperfette, relative a un senso immateriale, da raggiungere accantonando ogni parvenza. L’arte che si ispira alla Bibbia, invece, pretende di restituire una realtà; simbolicamente densa, certo, ma senza scissione tra superficie e profondità, tra segno e mistero. “L’icona non è mitopoietica”, scrive ancora Cacciari, “essa opera-dipinge un evento reale, e presuppone che esso formi un tutt’uno con il proprio significato”. Vale per Simone Martini, per Andrea Di Bartolo, per Leandro Bassano; e, all’altro estremo cronologico, anche per Incorpora.
Cosa significa, allora, “racconto del sacro”? Mito, si sa, vuol dire proprio racconto; e tuttavia il racconto mitologico versa in una trama un quid ultimamente acronico, un dinamismo fuori dal tempo, riproposto come linea temporale solo didascalicamente e impropriamente, in accordo con le (imperfette) modalità umane di percezione e rappresentazione. Non così il racconto cristiano; che si fa carico di un fatto accaduto una sola volta, in un preciso punto spazio-temporale, secondo un’intersezione del senza tempo col tempo, come indicava Eliot. Il potenziamento dell’immagine va tutt’uno, nell’arte cristiana, con il potenziamento del racconto: la trama che inanella i personaggi evangelici non è translitterazione narrativa di un nucleo in realtà indipendente da ogni hic et nunc, poggia invece su una effettiva storia, localizzata e con esplicita datazione. Meglio ancora: poggia su un’inaudita novità storica, che ha fatto svoltare il meccanismo naturale delle cose.
L’attrazione che Incorpora, assecondando un’eredità artistica umile e sublime, colta e popolare, ha avvertito verso il presepe implica indubbiamente un amore per l’uomo, colto nel lavoro, nel dolore, nella grandezza della sua attesa, nella miseria dei fallimenti. L’umanità di sempre: e quindi anche quella di oggi, assolutamente contemporanea. Solo che nell’istintiva (e pensata) convinzione di Incorpora questa ressa di uomini conosce un attrattore che la calamita a sé: l’evento della Vergine e del Dio generato. Da notare: il Dio che avviene in una piega del cosmo, in un frangente del tempo, avviene però con assoluta discrezione, in disparte, sommessamente. Del resto, si fa inerme, un bambino appunto: epifania minima ed esposta, refrattaria a imporsi con violenza, rispettosa dell’assoluta libertà del genere umano. Ma proprio per questo, termine di convergenza di passi innumerevoli, del loro andare.
Anche durante la guerra Incorpora plasmava il presepe; durante la guerra dei campi di concentramento e degli stermini di massa. Lui è prigioniero in Polonia; e non riesce a credere in un’assenza di Dio. Non si è compromesso, Dio, una volta per tutte, con la condizione umana e la sua tragedia, senza poter più tornare indietro? Nel lager di Warthenau – così gli occupanti nazisti chiamano la cittadina polacca di Zawiercie – vi è un sottoscala-immondezzaio; e Incorpora prende iniziativa. Con crete ruvide, comincia a forgiare pastori, pifferi, zampogne, pecore, sporte di massari e di montanari, facendosi aiutare dai compagni di prigionia. È stato detto che l’arte, dopo i lager, è inimmaginabile; eppure proprio nei lager (lo sappiamo) si scrivevano poesie, nonostante tutto. E si realizzavano presepi. A Warthenau, i singoli personaggi via via modellati all’interno del reticolato, in quel sottoscala trasformato in laboratorio, vengono poi portati in un vicino altoforno e infine nel Duomo, nell’unica cappella laterale della navata di destra. Erano già in dialogo, quelle figurine, con i capolavori consacrati della civiltà artistica europea? In ogni caso, c’era qualcosa da raccontare anche nel lager.