Il salario minimo legale non è la strada giusta per aumentare le retribuzioni dei lavoratori, così come non lo è quella della flat tax: sarebbe molto meglio che, in un disegno organico di riforma tributaria, il Governo imboccasse la strada, suggerita dalla Confindustria, di un robusto taglio del cuneo fiscale destinando il 100% delle risorse liberate ai lavoratori”. Chi parla così, in una recente intervista, è Maurizio Stirpe, vicepresidente della Confindustria per i rapporti sindacali, il quale boccia le due principali iniziative che, in competizione tra loro, portano avanti le due compagini della maggioranza di governo: i “verdi” sbavano per la flat tax, i “gialli” per il salario minimo legale.



La proposta di Stirpe è corretta e condivisibile, ma anche in questo caso “virtuoso” si dovrebbe, per chiarezza e trasparenza, scendere un po’ sul piano delle soluzioni tecniche e operative. Ciò perché, il “cuneo fiscale e contributivo” non è una sorta di nodo gordiano da recidere con un colpo di spada e non costituisce neppure un tesoretto abusivo “messo lì nella vigna a far da palo”. Non siamo cioè in presenza di risorse di cui non si conoscono la natura e la destinazione, ma del pacchetto di aliquote attraverso le quali i datori e i lavoratori finanziano la maggior parte delle prestazioni sociali.



Ormai sul versante della fiscalizzazione dei cosiddetti oneri impropri si è già raschiato – più volte – il fondo del barile. Certo, l’uso della leva fiscale può concorrere alla riduzione del differenziate tra retribuzione lorda e netta, ma non a ridurre il costo del lavoro. Ed è assai problematico ridurre la parte contributiva del cuneo, già ora in molti casi insufficiente a finanziare le relative prestazioni. In sostanza, come già avviene – da tempo e per diverse politiche sociali (si pensi al assegno per il nucleo famigliare – Anf – dove intervengono i trasferimenti nonostante l’attivo assicurato dal prelievo contributivo), è lo Stato, ovvero la fiscalità generale a coprire lo squilibrio tra entrate e uscite.



Ma ha un senso tutto ciò quando il calcolo contributivo viene santificato come lo strenuo difensore di una corrispettività tra contribuzione versata (a questo punto surrogata da supporti di finanza pubblica) e importo della pensione? Dove andrebbe a finire la purezza della linea cara al nuovo corso? Il costo del lavoro in senso ampio comprende la remunerazione del lavoro dipendente (retribuzioni, compensi in denaro e in natura, contributi sociali a carico del datore di lavoro), i costi della formazione professionale e altre spese (quali spese di assunzione, spese per indumenti da lavoro e imposte inerenti all’occupazione e considerate come costo del lavoro meno i contributi percepiti). Secondo le rilevazioni dell’Istat – la pubblicazione è del gennaio di quest’anno – riguardante le retribuzioni e il costo del lavoro, nel 2016 nelle unità economiche, con 10 dipendenti e oltre, il costo del lavoro in senso ampio, ossia il complesso delle spese sostenute dai datori di lavoro per impiegare lavoratori, è stato pari a 41.785 euro per dipendente: il cui 72,4% è costituito dalle retribuzioni lorde e il 27,3% dai contributi sociali. La restante parte è composta dai costi intermedi connessi al lavoro, tra cui le spese di formazione professionale che contano per lo 0,2%.

All’interno delle retribuzioni lorde, quelle in denaro rappresentano il 71,6% del costo del lavoro in senso ampio e sono costituite da importi erogabili in ogni periodo di paga (56%), importi non erogabili in ogni periodo di paga, ovvero quelli relativi a tredicesima e altre mensilità aggiuntive, premi annuali, ecc. (9,2%) e remunerazioni per giorni non lavorati per ferie, festività, permessi (6,3%). Le retribuzioni in natura ammontano allo 0,7% del costo del lavoro in senso ampio. Completano il quadro, secondo l’Istat, le diverse componenti dei contributi sociali. Il 27,3% complessivo è costituito principalmente da contributi obbligatori per legge (20,9%). La parte di contributi volontari e contrattuali incide per lo 0,4% mentre Tfr e contributi sociali figurativi hanno un peso rispettivamente del 3,6% e del 2,4%.

Bastano questi dati a far comprendere che le riduzioni del costo del lavoro possono verificarsi soltanto sul versante di quella contribuzione sociale che finanzia – con un apporto decrescente – le prestazioni del welfare (si ricorda che l’aliquota pensionistica è pari al 33% grosso modo suddivisa nel 24% a carico del datore e del 9% del lavoratore dipendente). Del resto, tutti gli aggravi caricati sul sistema pensionistico in tempi sia antichi che recenti (compresa quota 100 e le altre misure) sono stati finanziati dalla fiscalità generale. È sempre più evidente, allora, che la tanto decantata corrispettività – alla base del principio assicurativo – tra contributi versati e pensione è soltanto un’illusione ottica.

Se si volesse davvero riordinare il sistema, tanto varrebbe allocare i trasferimenti dal bilancio dello Stato in un trattamento di base di carattere universale, sul quale potrebbe innestarsi un secondo pilastro obbligatorio, a questo punto finanziato con un’aliquota più bassa dell’attuale anche di 8 o 9 punti (e con conseguente riduzione del costo del lavoro). Ovviamente occorrerebbe un periodo di transizione fondato su una ristrutturazione delle risorse oggi destinate al sostegno dell’assistenza.