Uno, dieci, cento provvedimenti per aiutare il nostro Paese a uscire dalla crisi. Ma a volte avere tante idee significa non averne affatto. A detta del presidente del Consiglio, gli Stati generali sono stati utili per indicare una vasta serie di progetti per rivitalizzare l’economia e le relazioni sociali. Ma da quanto traspare dal dibattito interno alla maggioranza non hanno aiutato a individuare cosa fare nei prossimi mesi. Quelli decisivi per comprendere su quali fondamenta si potrà ripartire, dagli assetti produttivi e dal mercato del lavoro che saranno sopravvissuti dalla devastazione operata dalla pandemia.



Nella compagine governativa le idee non scarseggiano: prolungare il blocco dei licenziamenti, le casse integrazioni, la sospensione dei vincoli per l’utilizzo dei contratti a termine sino alla fine dell’anno in corso; diminuire temporalmente le aliquote dell’Iva e riformare quelle dell’Irpef, senza dimenticare che recentemente il consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge delega per potenziare gli aiuti fiscali e contributivi per le famiglie. E non poteva mancare alla fine l’ennesima proposta di ridurre il cuneo fiscale sulle retribuzioni. Con tanto di articolazione tra chi li vuole selettivi per aiutare l’occupazione nei settori e le imprese più esposte agli effetti della crisi, oppure generalizzati per sostenere i rinnovi dei contratti collettivi e la crescita dei salari legati alla produttività.



Tutte queste ipotesi sono in campo, sostenute di volta in volta da esponenti del Governo o da forze politiche della maggioranza parlamentare. Ma nell’insieme palesemente incompatibili tra loro, per via della limitatezza delle risorse e in quanto espressione di una diversa idea di politica economica.

Il Governo ha esaurito i margini di espansione del deficit pubblico concessi dal Parlamento. Per finanziare il proseguo delle casse integrazioni, e concedere ulteriori dilazioni temporali per il pagamento delle imposte per le imprese e per i lavoratori autonomi non basteranno i risparmi di spesa ottenuti dallo scarso tiraggio di alcune misure adottate e i primi contributi che arriveranno sotto la forma di nuovi prestiti dal fondo Sure europeo per i sostegni all’occupazione. I margini per un ulteriore incremento del deficit sono pertanto limitati e richiederebbero, quantomeno, una chiarezza di idee sul come e sul dove indirizzare le poche risorse disponibili.



Un passaggio che viene impedito dai conflitti interni alla maggioranza intorno a quelli che dovrebbero rappresentare gli assi decisivi della politica economica: l’incremento delle risorse finalizzate a sostenere gli investimenti pubblici e privati, quelle da destinare alla sostenibilità delle imprese nei settori più esposti alla crisi, i provvedimenti da adottare per rendere sostenibile la mobilità del lavoro con un mix adeguato di politiche passive e attive.

L’obiettivo di aumentare gli investimenti sulle infrastrutture è quello che riscontra un’unità di intenti inversamente proporzionale alla capacità di adottare scelte tempestive per sbloccare le opere pubbliche. Si confrontano all’interno della maggioranza due visioni opposte: una, orientata a sospendere la vigenza del nuovo codice per gli appalti per replicare, con opportuni adattamenti, il modello utilizzato con successo per il ponte di Genova. Un’ipotesi considerata impraticabile da buona parte del Partito democratico che preferisce procedere accelerando la gestione delle procedure previste dalla legislazione in essere.

Il presidente del Consiglio ha recentemente caldeggiato l’adozione di una misura temporanea di riduzione dell’Iva, per favorire uno shock positivo sui consumi indotto dall’abbassamento dei prezzi, imitando la scelta operata recentemente dal Governo tedesco. Nel contempo il ministro dell’Economia ritiene più opportuno proseguire la scelta di ridurre il cuneo fiscale e contributivo sul costo del lavoro avviata con l’ultima Legge di stabilità, mentre Italia viva caldeggia una riforma strutturale dell’Irpef a vantaggio dei redditi medio-bassi. Tutte queste ipotesi si propongono di razionalizzare per lo scopo i vari bonus, gli 80 euro introdotti dal governo Renzi e le detrazioni aggiuntive in vigore dal prossimo mese. La medesima operazione prevista nel disegno di legge denominato “Family act”, recentemente approvato dal consiglio dei Ministri, per finanziare l’introduzione dell’assegno unico in favore dei figli minorenni. In buona sostanza nell’ambito del Governo si stanno ipotizzando tre tipologie di riforma fiscale con l’aggiunta di un intervento straordinario per la riduzione dell’Iva.

Queste scelte sono inevitabilmente destinate a condizionare quelle delle politiche del lavoro, nel frattempo concentrate su una serie di costosissimi interventi di sostegno al reddito, in particolare per finanziare le casse integrazioni destinate a essere ulteriormente implementate in relazione al proseguo del blocco dei licenziamenti oltre il 17 agosto p.v.

La linea che attualmente prevale nella maggioranza, con il sostegno delle organizzazioni sindacali, è quella di congelare gli effetti della recessione sul mercato del lavoro. Accentuata dal ripristino dei vincoli per l’utilizzo dei contratti a termine ribadita dagli esponenti del M5S, con il risultato inevitabile di disincentivare, in un momento di gravi incertezze produttive, le poche opportunità di nuove assunzioni disponibili. Con imprese disincentivate ad assumere lavoratori, e in presenza di aumento esponenziale di lavoratori occupati in cassa integrazione o formalmente disoccupati, la possibilità di far funzionare una qualsiasi politica attiva del lavoro viene praticamente ridotta al lumicino.

Queste scelte, oltre che accumulare nel tempo i problemi, rendendo socialmente ingestibile il potenziale futuro dei licenziamenti, produrranno come conseguenza un forte aumento della spesa pubblica corrente per finalità assistenziali.

In questo modo il cerchio si chiude, i buoni propositi di potenziare gli investimenti rimarranno sullo sfondo sacrificati sull’altare della priorità di rispondere alle emergenze destinate a protrarsi nel tempo.

La confusione mentale non è un incidente di percorso. È il frutto degenere di una classe dirigente politica tutta protesa a offrire una rappresentazione rassicurante dei problemi e della capacità di risolverli con supplementi di interventismo statale e di spesa pubblica.