Nella legge di bilancio promulgata il 30 dicembre 2022 è presente l’importante comma 62-bis che recita “Le Regioni dovranno presentare entro il 30 gennaio di ogni anno un piano di potenziamento delle cure palliative al fine di raggiungere entro il 2028 il 90% della relativa popolazione”.

Alla vigilia del dibattito sulla prossima legge di bilancio il punto di partenza per capire quali e quante risorse saranno rese disponibili per le cure palliative non può che essere quel piano. È necessario comprendere quali siano le responsabilità oggettive di ogni Regione in fatto di cure palliative, per capire perché in alcune regioni stiano aumentando le richieste di suicidio assistito.



L’esperienza, infatti, ci dice che, dove ci sono maggiori e migliori cure palliative, la richiesta eutanasica è pressoché azzerata. Occorre chiedersi però quanto il Governo sia disposto ad investire in fatto di cure palliative nella legge di bilancio di quest’anno; non solo per soddisfare un bisogno sempre più esteso e pressante nel campo delicatissimo delle cure nel fine vita, ma anche per soddisfare esplicite richieste della famosa sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. Perché non possiamo dimenticare che mentre “assolveva” Cappato, depenalizzando l’aiuto al suicidio assistito, contestualmente imponeva al Governo e alle regioni un più esplicito e sostanzioso intervento proprio nel campo delle cure palliative. E oggi, mentre Cappato si candida al Senato, nel seggio che fu di Berlusconi, ben poco è stato fatto per implementare le cure palliative, come era previsto e come sarebbe stato necessario.



Le cure palliative sono l’insieme degli interventi terapeutici e assistenziali finalizzati alla cura attiva e totale di quei pazienti la cui malattia di base non risponde più a trattamenti specifici. Prevedono un supporto di tipo psicologico, spirituale e sociale, rivolto sia alla persona malata che alla sua famiglia. L’obiettivo è garantire al paziente il massimo rispetto per la sua dignità e la migliore qualità di vita possibile, cercando di prevenire quei sintomi invalidanti che spesso caratterizzano la fase terminale di molte malattie irreversibili.

Ogni malato ha diritto, in tutto l’arco della sua vita e fino al momento della sua morte, alle migliori cure disponibili, nonostante possa essere stato dichiarato inguaribile. Inguaribile non vuol dire incurabile. Il paradigma più avanzato della medicina oggi si articola sul binomio della vulnerabilità e della necessità di cura dell’uomo, in chiave relazionale prima ancora che tecnico-farmacologica.



Nelle cure palliative l’efficacia sta soprattutto nella qualità del rapporto in cui si intrecciano il senso di responsabilità e di competenza del curante con l’abbandono fiducioso di chi affida la propria fragilità ad un altro. Una tecnologia, per quanto efficiente, se priva di calore umano, appare ostile e suscita un rifiuto difficile da superare. Viceversa, un uomo giunto al termine della sua vita, per quanto fragile, se è opportunamente aiutato, può rielaborare anche esperienze molto difficili e dolorose, dando loro un significato nuovo che consenta di trasformarle in una diversa affermazione dei suoi valori, compresa una nuova ragione per continuare a vivere.

Una sola cosa è preclusa all’uomo: l’autosufficienza, che genera una solitudine autoreferenziale in chi crede di poter prescindere dall’aiuto altrui. Per questo è necessario accompagnare il malato in tutto il processo decisionale che innerva le varie fasi della sua malattia, senza lasciarlo solo con le sue paure e con i suoi dubbi. È il modo di curare, tipico del sistema di cure palliative, che si prende cura del paziente, cominciando dai suoi dubbi e dalle sue paure.

Il paradigma della cura così inteso ha una potenza tale da ribaltare l’individualismo e l’egocentrismo, che sono i fattori tossici più inquinanti e pericolosi del nostro sistema sociale. Solo in questa accezione si possono superare gli approcci dilemmatici, spesso altamente conflittivi che propongono, o piuttosto oppongono tra di loro il diritto alla vita e il diritto alla libertà, come se davvero si potesse scegliere tra beni di questa portata.

Il nuovo paradigma delle cure palliative costituisce un approccio che la medicina sta rivalutando, proprio perché diventa sempre più attenta alla storia personale del soggetto e non solo alla storia delle sue malattie. È un modo nuovo, decisamente creativo, per tornare all’anamnesi tradizionale, evitando di ridurre il paziente ad una lista di problemi, in cui ci si limita a distinguere quelli attivi da quelli pregressi, in uno schema di tipo tecnico-scientifico, in cui la soggettività del malato resta assorbita in un anonimato statistico.

Solo partendo dall’esperienza dal soggetto, dalla sua fragilità e dalla sua sofferenza, è possibile demistificare l’esaltazione del principio di autodeterminazione, tanto in voga di questi tempi. Perché mentre si sottolinea il diritto di ogni uomo all’esercizio pieno della sua libertà, si fa passare in secondo piano l’intrinseca vulnerabilità del malato, l’insicurezza che accompagna le sue valutazioni e le sue decisioni.

Alla vulnerabilità del paziente, inoltre, corrisponde anche la vulnerabilità del medico, che deve fare i conti con i suoi limiti personali: limiti della sua competenza nel comprendere a fondo i problemi; limiti della sua sensibilità nella capacità di empatizzare con tutte le persone che ricorrono a lui; limiti nella disponibilità del suo tempo per rendersi disponibile con ognuno a seconda dei suoi bisogni. Tanti limiti di tanti tipi che definiscono la sua personale vulnerabilità: il medico più percepisce il paradigma della vulnerabilità, tanto più si scopre inadeguato ad affrontare il dolore e la malattia di chi si affida alle sue cure. È nell’esperienza della sua vulnerabilità, secondo la bella immagine del guaritore ferito, che impara a comprendere meglio chi è la persona malata che si affida a lui e riesce ad elaborare con lei risposte nuove e condivise, proprio perché tocca con mano i suoi limiti davanti a situazioni difficili da gestire. È la grande lezione che progressivamente prende forma nell’esperienza di chi si occupa di cure palliative. Medico e paziente hanno bisogno l’uno dell’altro per capire cosa sia meglio fare.

Proprio per questo, a tutti i medici, a tutto il personale sanitario andrebbe offerta una solida formazione nel campo delle cure palliative, centrate sull’etica della cura; la Scuola di specializzazione in cure palliative, però, è stata approvata solo due anni fa e non ha ancora i suoi primi specialisti. Quest’anno gli iscritti alla scuola di specializzazione sono solo 140, perché 140 erano i posti disponibili (DM 1268/2023). Decisamente troppo pochi, per un fabbisogno crescente in termini di cure da erogare negli ospedali, negli hospice e a domicilio.

Abbiamo bisogno di una maggiore formazione in cure palliative; di un maggior numero di specialisti in cure palliative e non solo medici! Servono anche infermieri specialisti in cure palliative; abbiamo bisogno di più hospice, soprattutto al sud, e comunque di più letti negli hospice attuali; abbiamo bisogno di risorse da dedicare alla medicina territoriale e in particolare all’assistenza domiciliare nelle cure palliative.

Anche per questo siamo in attesa di capire quante risorse ci saranno nella prossima legge di bilancio dedicate alle cure palliative per raggiungere quel 90% di cui si parlava nella legge di bilancio dello scorso anno.

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