Esce in questi giorni un libro interessante su un tema spinoso: le cure palliative. Un libro “azzardato” o innovativo, quello scritto dal professor Carlo Bellieni dell’Università di Siena? Può sembrare azzardato leggendo il titolo apparentemente complesso, cioè – tradotto dall’inglese – “Un nuovo approccio olistico-evolutivo alle cure palliative pediatriche”. Ma parlare di un nuovo approccio per qualcosa che ancora stenta a crescere in Italia e nel mondo pare di buon auspicio. Ne abbiamo parlato con l’autore.
C’era realmente bisogno di un nuovo approccio a questo tema?
Certamente sì. Perché le cure palliative, e in particolare quelle per i bambini, sono in continua evoluzione. Finalmente siamo passati dall’idea di cure palliative come sinonimo di cure di fine-vita alle cure per il sollievo e il rispetto del malato cronico, grave, talora non comunicativo, ma non in fine-vita. E ce n’era bisogno anche per un’altra specificità.
Quale?
Il fatto che i bambini sono diversi tra loro per età e con la loro età cambia il modo di comunicare e recepire. Nel testo mi soffermo molto nello spiegare, attraverso gli studi di maestri storici come Jean Piaget, come questo cambiamento può e deve essere conosciuto e seguito dal pediatra, dall’anestesista, dal palliativista.
Nel suo libro, pubblicato in inglese dalla prestigiosa casa editrice Springer, parla molto della famiglia del bambino.
Sì, perché il bambino non si può curare e non si può concepire fuori del rapporto con la sua famiglia. Anche in questo caso c’è una specificità diversa dall’adulto. E nel percorso curativo occorre essere in grado di essere compagni di cammino dei genitori. Per questo ho spiegato nel dettaglio come tentare di capire il tipo psicologico di genitore che abbiamo davanti tramite gli studi di Myers-Briggs, e come inserirsi con intelligenza e tatto nel loro percorso di lutto, individuando la fase di lutto che stanno attraversando, quando questo sia in atto dopo una prognosi infausta.
Quindi capiamo cosa significa un approccio “evolutivo”, cioè che segue l’evoluzione del bambino e della famiglia nel passare del tempo e nella crescita. Ma perché parla anche di un approccio “olistico”? Ci può spiegare che significa?
Olistico significa “totale”, ed è la medicina tutta e in particolare la pediatria a dover esser sempre più “totale”. L’ospedale non può essere più solo un centro di smistamento che rimanda a questo o a quello specialista, ma deve diventare un luogo curativo, cioè quasi che le mura, i letti, i curanti diventino una protesi per chi manca di qualche abilità o capacità, e un luogo in cui si sperimenta un clima di salute, in primo luogo per i piccoli e le loro famiglie.
È per questo che si è soffermato nel testo anche sull’architettura degli ospedali e degli hospice? Non è un po’ fuori luogo in un testo di medicina?
Non credo, perché i pionieri della medicina, penso all’arcinota Florence Nightingale, hanno descritto le innovazioni tecniche necessarie nei luoghi di cura, a partire dalla necessità degli spazi verdi, delle vedute rasserenanti dalle finestre, dagli spazi dedicati al riposo, ai lavaggi, alle analisi, e alcune di queste raccomandazioni attendono ancora una risposta. I progetti di fine secolo scorso fatti in Italia da Umberto Veronesi e Renzo Piano sulle migliori architetture degli ospedali e sulle loro integrazioni con la città ancora attendono applicazione.
Lei dedica capitoli all’etica della cura e capitoli alla pratica farmacologica pediatrica. Come si conciliano in uno stesso libro?
Sarebbe male che non si conciliassero. Spesso la parte etica nei libri di testo medici non c’è o è relegata a” ciliegina sulla torta” in un’appendice. Qui invece è il fil rouge di tutta la narrazione. E dico narrazione apposta, perché il testo trova degli intermezzi in riflessioni di Franz Kafka e di Jacques Prévert. La parte clinica e farmacologica allora prende senso. Perché il medico non risulta più quello che cura, ma quello che si prende cura; e la cosa ha il suo peso. Ci sono farmaci, dosaggi, effetti collaterali, ma anche la richiesta che siano dati in mano a chi sa abbracciare l’umano.
Infatti nel libro lei parla di una nuova visione della parola “etica”: non una serie di principi o norme, ma un approccio basato sulle virtù umanistiche.
Sì, perché il comportamento è buono o cattivo non se segue dei protocolli o se ha delle conseguenze buone, ma se è buono in sé; e una persona è buona se segue le virtù, non una serie di norme.
Cosa c’è di nuovo nel panorama delle cure palliative pediatriche?
In primo luogo, che non sono solo legate al fine-vita, come dicevo. In secondo luogo, che possono essere gestite in vario modo: in ospedale, negli hospice specialistici e addirittura a domicilio, a seconda delle situazioni. Ma c’è anche altro.
Cioè?
Che sono possibili oggi anche cure palliative neonatali e addirittura perinatali, cioè quella presa in carico del bambino e della sua famiglia dal momento di una diagnosi di terminalità, cioè di malattia incurabile, fatta in sede prenatale.
E per quanto riguarda il trattamento farmacologico, la morfina e i sedativi?
Oggi possiamo dire di aver raggiunto un grado di efficienza di questi farmaci molto alto, ma c’è molta strada da fare: alcuni di questi vengono necessariamente usati con prudenza off-label, cioè anche al di fuori delle prescrizioni che si ritrovano sul bugiardino, perché non ci sono ancora abbastanza studi sui bambini, e questo ne limita l’uso. Di alcuni invece ancora non c’è abbastanza diffusione di conoscenza tra i curanti, comprese le possibilità non-farmacologiche.
A chi è rivolto questo libro?
Agli operatori sanitari, pediatri, anestesisti, palliativisti e ai bioeticisti. È rivolto anche alle famiglie dei bambini che necessitano di cure palliative. Ma per certi capitoli meno tecnici sono sicuro che sarebbe di interesse per un pubblico generale, perché il testo si basa su un affronto completo della medicina che sarebbe bene che fosse conosciuto, in particolare da chi legifera in merito.
Si parla di cure palliative come di una risposta alle scorciatoie per il fine-vita.
Sbagliato. Perché le cure palliative sono “la cura”, cioè non sono una risposta a qualcosa cui si oppongono, ma sono la normale pratica del medico sufficientemente bravo.
Insomma, un libro di testo per specialisti, ma che vuol parlare anche di come una medicina diversa sia possibile?
Penso di sì, se questo significa mostrare che tutta la medicina può essere vista fuori da una logica aziendalistica, dal mero rapporto operatore-cliente e da un’azione medica che diventa routine.
(Max Ferrario)
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