A 100 giorni dal disastro della Deepwater Horizon la chiazza di petrolio sembra essere misteriosamente scomparsa. E se in parte il merito è del tappo, che due settimane fa la BP è finalmente riuscita a mettere sul pozzo, resta il fatto che dalle statistiche ufficiali del governo Usa mancano 4 milioni di barili, cioè 167 milioni di galloni, fuoriusciti dalla perforazione dal momento dell’esplosione.



Eppure il piccolo esercito arruolato per ripulire il Golfo del Messico è riuscito a scremare solo una minima parte degli inquinanti che si sono riversati nell’oceano. Benché ci fossero più di 4mila imbarcazioni coinvolte nelle operazioni di pulitura, questa flotta può avere raccolto solo una piccola percentuale del petrolio. Anche nelle precedenti fuoriuscite di petrolio, è stato possibile raccogliere solo una piccola percentuale degli inquinanti. «E’ molto raro che si arrivi all’1 o al 2 per cento», afferma Richard Howarth, professore di Ecologia della Cornell University, che era intervenuto sul campo in occasione della fuoriuscita della Exxon Valdez.



 

DOV’E’ FINITO IL PETROLIO? – E quindi dov’è finito il petrolio? «In parte è evaporato – spiega Edward Bouwer, professore di ingegneria ambientale alla John Hopkins University -. E questo vale soprattutto per le componenti più tossiche del combustibile, che tendono a essere particolarmente volatili». Jeffrey W. Short, uno scienziato dell’associazione ambientalista Oceana, ha dichiarato al New York Times che il 40% del petrolio potrebbe essere evaporato dopo aver raggiunto la superficie. E i forti venti di due recenti tempeste potrebbero avere accelerato il processo.



 

Ma in realtà la causa principale della scomparsa del petrolio sarebbero alcuni microbi che lo avrebbero letteralmente mangiato. I microbi abbattono gli idrocarburi dispersi nelle acque, utilizzandoli per crescere e riprodursi. Con il risultato che basta una goccia di petrolio nel mare perché la popolazione dei batteri cresca esponenzialmente in quel punto. «Di solito ci sono abbastanza microbi nell’oceano da consumare metà di tutto il petrolio fuoriuscito in un mese o due», afferma Howarth. Questi microbi sono stati trovati in tutti gli oceani del mondo in cui sono stati condotti i test, dall’Artico all’Antartico.

 

 

Ma ci sono motivi per pensare che questo processo possa avvenire più rapidamente nel Golfo che in altri oceani. I microbi crescono più rapidamente nelle acque calde che non in quelle gelide dell’Alaska, dove si era verificato il disastro della Exxon Valdez. Inoltre, il Golfo è tutt’altro che incontaminato. Anche prima che iniziassero le perforazioni per il petrolio – di cui è andata dispersa una parte significativa – il combustibile filtrava naturalmente nell’acqua. E la conseguenza è stata che nel petrolio si è diffusa un’ampia varietà di microbi che si nutrono di idrocarburi, pronti ad avventarsi su ogni nuova fuoriuscita.

 

«I microbi sono scaltri e resistenti – osserva Samantha Joye, esperta di microbiologia dell’University of Georgia. Joye ha dimostrato che nelle parti del Golfo contaminate dal petrolio i livelli di ossigeno sono diminuiti. E dal momento che i microbi hanno bisogno di ossigeno per mangiare il petrolio, questa sarebbe la prova del fatto che stanno lavorando sodo. E le sostanze chimiche utilizzate per spezzare l’onda nera potrebbero avere aiutato i microbi a fare meglio il loro lavoro. I batteri consumano infatti più facilmente delle piccole gocce che non delle grandi quantità.

 

 

Una lettura ottimistica che però non convince tutti gli esperti. Grandi quantità di petrolio sarebbero uscite dall’acqua, ma potrebbero essersi trasferite nell’aria, o essersi arenate sulle coste intorno al Golfo. E una parte del petrolio è ancora là, probabilmente mescolata con le altre sostanze chimiche. Alcuni scienziati ritengono che stiano fluttuando in nuvole sottomarine, che qualcuno ha paragonato alla nebbia tossica. «Il petrolio fuoriuscito deve essere finito da qualche parte», ha osservato James H. Cowan, un professore della Louisiana State University. Le sue ricerche hanno rivelato concentrazioni di olio fluttuanti a diversi chilometri dal punto del disastro.

 

«Gli inquinanti continueranno a rimanere nell’ambiente per un certo periodo di tempo. Sono preoccupato per il fatto che alcuni abitanti possano essere esposti cronicamente a basse concentrazioni di tossine. Se l’acqua è contaminata, anche gli animali lo diventano».

 

 

L’ipotesi più probabile è che la verità stia nel mezzo. E’ quanto sostenuto dall’agenzia federale Usa del NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). Come riferisce sempre il Washington Post, il direttore del NOAA Jane Lubchenco ha ammesso che «il greggio leggero è rapidamente biodegradabile. Sappiamo infatti che una quantità significativa del petrolio si è dispersa e biodegradata grazie a batteri intervenuti per dei processi naturali».

 

Ma per poi aggiungere che gli effetti ambientali a breve e lungo termine della fuoriuscita di diversi milioni di barili di petrolio saranno comunque gravi e che la loro estensione è in qualche modo imprevedibile. «Il volume di petrolio fuoriuscito è sufficiente per ritenere che l’impatto sull’ambiente sarà decisamente notevole – ha precisato -. Ciò che dobbiamo ancora determinare è l’impatto complessivo che il petrolio avrà non solo sui litorali, non solo sulla natura, ma anche al di sotto della superficie dell’oceano». E ha concluso Lubchenco: «Poco o nulla del petrolio è rimasto sul livello del mare, ma la maggior parte sta ancora fluttuando nelle acque del Golfo».

 

(Pietro Vernizzi)