In un’intervista rilasciata il 23 agosto scorso, Steve Nixon ha ringraziato i medici che gli hanno salvato la vita. La sua storia nel Regno Unito è molto nota: Steve è morto 28 volte. Ben 28 arresti cardiaci consecutivi hanno messo in serio pericolo la sua vita dopo un incidente. Ora sta bene e racconta il suo caso, davvero miracoloso, in quanto finora il numero massimo di attacchi cardiaci consecutivi subiti da una persona era stato di 10-15. Tutto è accaduto il 23 agosto di un anno fa, quando Steve Nixon, 44 anni, padre di tre bambini, ha avuto un attacco di cuore mentre guidava la moto ed è andato a scontrarsi frontalmente contro un’auto. I paramedici dell’ambulanza lo hanno soccorso tempestivamente, ma il suo cuore si è fermato per altre quattro volte consecutive mentre si trovava sdraiato sull’asfalto. Gli infermieri sono però riusciti a farlo battere ancora grazie alle scosse del defibrillatore.
 



Steve è stato portato in elicottero all’ospedale, dove il suo cuore si è fermato per altre 23 volte. Ogni volta, 28 in tutto, i dottori lo hanno fatto ripartire, prima di riuscire a inserire un pacemaker per stabilizzare il suo battito cardiaco e riparare un’arteria lacerata. Steve, che vive nella città inglese di Derby, domenica ha ringraziato ufficialmente l’abilità dello staff dell’University Hospital Coventry. E ha dichiarato: «Mi sento un miracolato per il fatto di essere qui oggi a raccontarvi come è andata. L’equipe medica è riuscita a salvarmi. Mia moglie Miriam ha appeso una fotografia di famiglia sul retro della porta nella stanza del reparto di terapia intensiva dove mi trovavo, in modo che fosse la prima cosa che avrei visto se fossi sopravvissuto. Ce l’ho fatta grazie all’amore della mia famiglia e alle persone davvero speciali del Servizio sanitario nazionale». E ha aggiunto Nixon: «Se non fosse per le cure che ho ricevuto, la mia famiglia non avrebbe né un padre né un marito».



 

Mentre il dottor Dawn Adamson, consulente cardiologo dell’ospedale, ha dichiarato: «Abbiamo scoperto che Steve aveva uno strappo nell’arteria principale che rifornisce il suo cuore. Stava troppo male per sopravvivere all’intervento chirurgico, e quindi abbiamo impiegato due ore per realizzare un’intelaiatura in grado di sorreggere le sue arterie danneggiate e permettere al sangue di continuare ad affluire al cuore». Il medico ha inoltre sottolineato: «Steve è incredibilmente fortunato per il fatto di essere vivo e sono orgoglioso di fare parte di un team così eccellente». Oltre a subire 28 arresti cardiaci, nell’incidente Steve Nixon si è anche fratturato il cranio, rotto il bacino, danneggiato i nervi e spezzato il braccio destro nell’impatto. Ma i medici di Coventry non sono stati in grado di curare i suoi traumi senza prima stabilizzare il cuore. Per farlo è stata scattata una serie di foto delle coronarie per localizzare il problema.



«Quello dei medici inglesi dell’University Hospital Coventry è veramente un intervento miracoloso – ammette Roberto Mattioli, primario di Cardiologia all’ospedale San Giuseppe di Milano -. Sono a conoscenza di persone che sono arrivate fino a 10, massimo 15 arresti cardiaci, ma non ho mai sentito prima che qualcuno sopravvivesse a 28 attacchi consecutivi. Al di là dell’indubbia fortuna del paziente che è ancora vivo, l’intervento dell’equipe inglese è quantomeno eccellente. In questi casi l’instabilità cardiaca, le arterie che tendono a chiudersi, le alterazioni biochimiche ed elettriche che danneggiano il muscolo cardiaco creano un quadro clinico molto difficile da gestire».

 

 

E aggiunge il cardiologo: «La capacità di resistenza del cuore umano agli arresti cardiaci dipende dalla salute globale di ogni singola persona e dalla tempestività con cui gli è prestata l’assistenza medica. Dopo tre o quattro minuti di mancanza di ossigenazione del cervello i danni diventano infatti irreversibili. Ma la resistenza del paziente dipende anche il fatto di avere o meno altre patologie come diabete, pressione alta e il vizio del fumo». Fattori cui è correlato anche il fatto di riuscire a ristabilirsi dopo essere sopravvissuto all’infarto, cioè alla morte di una parte del muscolo cardiaco per l’ostruzione di una o più delle tre arterie che lo alimentano, chiamate coronarie. O all’arresto cardiaco, che soprattutto nei giovani può essere causato anche da fattori completamente diversi.

«Dopo l’infarto la cilindrata del cuore si riduce – spiega Mattioli – e si crea una cicatrice al suo interno. Un intervento precoce può permettere la riapertura delle coronarie, diminuendo il rischio di morte. Superato il periodo critico il paziente può quindi riprendere a condurre una vita normale e anche a fare footing, in quanto l’attività fisica è consigliata. Al punto che alcuni ricominciano persino a giocare a calcio o a basket». Anche se, come sottolinea il primario del San Giuseppe, «dopo il primo infarto esistono discrete possibilità di ricaduta, soprattutto nei sei mesi immediatamente successivi. Le ultime scoperte mediche hanno però migliorato notevolmente la diagnostica, rendendo la coronografia sempre più efficace. Con il risultato che negli ultimi dieci anni le ricadute si sono ridotte drasticamente. Basti pensare che, se il paziente sopravvive al primo anno dopo l’infarto, le probabilità di averne un secondo si riducono del 30/40%».
 

A patto però di smettere di fumare, perché per chi continua le possibilità di un nuovo infarto nei cinque anni successivi al primo sono in media del 20%. E quindi per chi non cambia stile di vita, sono inutili anche i progressi compiuti negli ultimi anni dalla chirurgia. Tra gli altri, spiega Mattioli, «spiccano quelli dell’angioplastica, cioè l’intervento per riaprire le arterie ostruite. Posizionando nelle coronarie i cosiddetti “stent”, cioè delle reticelle metalliche, è possibile mantenere le arterie aperte anche dopo l’intervento. Costruiti inizialmente in acciaio, gli stent sono poi stati ricoperti da un farmaco a rilascio lento, e di recente sono stati realizzati interamente in materiali riassorbibili. Dopo sei mesi scompaiono del tutto e nell’arteria non restano tracce».

Ma nel tempo è migliorata anche la tecnologia con cui sono realizzati i pacemaker, cioè gli stimolatori cardiaci che correggono le aritmie nei cuori gravemente danneggiati come nel caso di Steve Nixon, cui i medici inglesi hanno appunto applicato uno di questi dispositivi. «Negli ultimi dieci anni – conclude Mattioli – le probabilità di sopravvivenza nei pazienti più gravi sono aumentate del 35% grazie allo sviluppo di pacemaker all’avanguardia».

(Pietro Vernizzi)