Un segnale di quanto Facebook è entrato nelle nostre vite? Una equipe di studiosi americani fa una scoperta storica sul funzionamento del cervello degli animali; una faccenda complessa, di neuroni, proteine e “fattori di trascrizione”. Ma basta un attimo e la scoperta diventa comprensibile anche per chi di neuroscienze non ne capisce proprio nulla. Basta usare un paragone chiaro a tutti. E così gli scienziati della Carnegie Mellon University hanno annunciato al mondo: abbiamo scovato i «neuroni Facebook».
Lo studio – pubblicato dalla squadra di biologi americani su Neuron, una delle principali riviste di neurologia – è di quelli che lasciano il segno. Sono quarant’anni che gli scienziati provano a capire come funziona la neocorteccia, una regione della corteccia cerebrale responsabile di alcune funzioni cruciali per la vita, dal movimento alla percezione sensoriale. Ora il team guidato da Alison Barth, professoressa di scienze biologiche alla Carnegie Mellon, è riuscito ad analizzare il comportamento dei singoli neuroni della neocorteccia quando vengono sottoposti a stimoli esteri. Scoprendo che i neuroni si comportano proprio come gli utenti di un social network.
«Su Facebook generalmente la maggior parte dei tuoi amici non è molto attiva – ha spiegato la Barth –, spesso non lo è per nulla. Ma c’è una piccola percentuale dei tuoi amici su Facebook che aggiorna il proprio status e la propria pagina molto spesso. È probabile che queste persone abbiano anche molti amici, quindi nel momento in cui condividono molte informazioni, ricevono anche una grande quantità di notifiche dalla loro vasta rete di amici, che include altri utenti più attivi della media». Allo stesso modo ci sono neuroni attivi e neuroni “dormienti”. Quelli più attivi si sobbarcano la maggior parte del lavoro del cervello: sono più “connessi” o – per dirla con le parole di Facebook – hanno più amici. Le cause di questa differenza non sono ancora del tutto chiare. Ma la Barth ha ideato un metodo che consente di osservare la diversa attività dei singoli neuroni: ora che si sa come individuare quelli più attivi, si potrà procedere ad un’analisi più approfondita sul perché esistono queste «sotto-reti» neuronali. Esiste una differenza tra “utenti” attivi e dormienti? Come e perché il cervello seleziona i neuroni Facebook? Le sotto-reti sono stabili o variano nel tempo? La scoperta del «Barth Lab» è di quelle destinate a venir dibattute dagli scienziati di mezzo mondo. Una pietra miliare per un intero filone di ricerca.
Non è la prima volta che si studia la neocorteccia; fino ad ora però si era riuscito ad analizzare il comportamento delle sue regioni, mai dei singoli neuroni. È stata la stessa Alison Barth, appena quarantenne, a ideare il metodo di ricerca. Qualche anno fa era nato nel suo laboratorio il primo «fosGFP mouse»: un topo transgenico creato dalla Barth per studiare il comportamento dei neuroni nella neocorteccia. Il team di studiosi americani è riuscito ad associare ad alcuni geni presenti nel cervello (i geni “fos”) una proteina ricavata da una medusa presente nelle acque dell’Oceano Pacifico. Questa proteina – nota come proteina verde fluorescente, GFP dall’acronimo inglese – emette una luce di colore verde acceso se sottoposta a determinati stimoli. Quando un neurone dei topi fosGFP viene “attivato” da uno stimolo esterno, la cellula si accende di luce verde, che rimane osservabile per alcune ore. Tutti i metodi precedentemente ideati comportavano un intervento violento degli scienziati sul cervello, che interferiva con le connessioni tra cellule nervose. Il nuovo metodo è stato la premessa per la scoperta dei neuroni Facebook.
Il primo test condotto anni fa dalla Barth fu quello di individuare quali neuroni si attivano quando il topo compie un’esperienza particolare: la scoperta del mondo attraverso i suoi baffi. Grazie all’accoppiamento tra geni fos e proteina verde, è stato possibile individuare i singoli neuroni che si attivano nel momento in cui uno stimolo esterno stuzzica anche solo un baffo del roditore. Nel nuovo studio gli scienziati di Carnegie Mellon hanno osservato ciò che succede nel cervello di alcuni topi che vengono allontanati dal loro ambiente e messi in una situazione nuova. Si sono allora accorti che solo il 15% dei neuroni della neocorteccia si “accendono” di verde. In altre parole, solo una piccola rete di utenti attivi smista tutto il lavoro che il cervello compie mentre esplora il mondo esterno.
Comprendere le cause di questo diverso comportamento dei neuroni sarà il prossimo passo dello studio. Per ora i ricercatori sono stati in grado di capire che i neuroni più attivi non sono «intrinsecamente» più eccitabili di quelli silenti. Al contrario, si tratta di cellule meno «eccitabili», ma che ricevono maggiori input dall’esterno. La ricerca continua, dunque, e a quanto pare non lascia alla Barth troppo tempo per essere attiva su Facebook. La studiosa (cliccare qui per credere) ha 53 amici sul social network. Quanti bastano per trovare una metafora geniale per una scoperta rivoluzionaria.